I golpisti argentini aprirono filiali nelle principali capitali europee per promuovere e vendere un nuovo prodotto: la desapariciòn. Era considerato il sistema repressivo perfetto. Il colpo di stato in Cile aveva indignato l’opinione pubblica mondiale, quelle immagini dei prigionieri negli stadi erano difficili da digerire anche da coloro che non avevano mai amato Allende. Ecco allora l’idea geniale: gruppi trasversali alle forze armate e alla polizia che gestivano campi di concentramento clandestini.

Gli oppositori venivano sequestrati, torturati, eliminati e i loro corpi non venivano restituiti alle famiglie. Diventavano desaparecidos. Fosse comuni, lanci da aerei nell’oceano, maiali, esplosivo, ogni mezzo era lecito. Il volto ufficiale e «garantista» della dittatura di Videla fingeva di non sapere nulla. I militari negavano. Tutto. Anche l’evidenza. Ma la macchina della menzogna funzionava dal punto di vista mediatico. La resistenza, i parenti degli scomparsi non venivano creduti. Il resto del mondo non aveva la percezione della violenza inaudita che stava eliminando studenti, operai, sindacalisti, artisti, intellettuali.
E i loro figli. Far sparire anche i bambini era un’articolazione del sistema repressivo. Le prigioniere incinte venivano tenute in vita fino al parto, poi il neonato veniva affidato a qualche famiglia di provata fede religiosa e politica oppure venduti. Spesso capitava che venissero allevati dagli stessi militari che avevano torturato e assassinato i genitori biologici.
Anche la militante montonera Laura Carlotto venne fatta uscire dal campo clandestino di La Cacha per dare alla luce un bambino ammanettata a un letto dell’Hospital Militar. Qualche tempo dopo venne trasferita all’Esma, la scuola di meccanica della marina, per essere eliminata.
Estela, sua madre, era riuscita a salvare il marito destinato a un volo della morte, gli altri figli erano in clandestinità, il più giovane andava ancora a scuola e, quando aveva saputo da una prigioniera sopravvissuta che Laura era al sesto mese, aveva preparato il corredino per il nipotino.
Ha dovuto attendere 37 anni per conoscerlo. Un tempo infinito, trascorso a lottare per la verità e la giustizia e a cercare gli oltre 400 bambini rapiti dalle patotas.
Una storia straordinaria, personale e collettiva, di un gruppo di donne che si sono organizzate per diventare le più temibili avversarie dei golpisti durante e dopo la dittatura.
Avevano pensato a tutto i generali ma non avevano fatto i conti con le donne. Quelle madri e quelle nonne che iniziarono a manifestare in Plaza de Mayo con un fazzoletto bianco in testa, chiedendo semplicemente: donde estàn?
Commisero l’errore di sottovalutarle, le chiamarono «locas», poi iniziarono ad arrestarle, a picchiarle, qualcuna venne assassinata ma non ci fu niente da fare. Furono proprio loro a mettere in crisi la dittatura argentina facendo conoscere al mondo la verità sui desaparecidos e sulle potenti alleanze di cui godevano i generali, dal Vaticano all’Unione Sovietica, che in cambio di grano e bistecche impediva ai partiti comunisti fratelli di appoggiare l’opposizione. Una brutta storia dalle mille sfaccettature non ancora chiarite del tutto.
Dopo la folle avventura militare della Malvinas, una democrazia debole e paurosa diede il cambio a Videla, tradendo la certezza della maggioranza degli argentini convinti che finalmente venisse raccontata la verità sui desaparecidos.
Non accadde nulla di tutto questo e madri e nonne si ritrovarono nuovamente a marciare in quella piazza che ancora oggi presidiano.
Il ritrovamento del nipote 114, Guido Carlotto, non è frutto del caso ma di una lungimirante strategia che ha permesso alle nonne di entrare in contatto con le nuove generazioni. Le Abuelas hanno capito presto l’importanza di rovesciare il punto di vista sulla ricerca dei nipoti scomparsi, facendo in modo che fossero loro a presentarsi per chiedere l’esame del Dna. Un lavoro lungo, instancabile per farsi conoscere, per creare consapevolezza sul tema del diritto alla verità sulla propria identità, per coinvolgere artisti e sportivi nelle campagne di sensibilizzazione.
Il ritrovamento di Guido Carlotto è una svolta importante. Il clamore del caso convincerà altre persone a verificare la propria identità. È proprio vero: l’unica lotta che si perde è quella che si abbandona.