Càpita, alle volte, ai giardini, di sentire qualche nonna rimproverare benevolmente il nipotino: «Quando vedo tua madre gli dico che hai fatto i capricci…». La celebre professoressa di don Lorenzo Milani, tornata di attualità, sarebbe certo intervenuta con la matita rossa o forse anche blu leggendo una frase simile nei temi dei suoi allievi. Ed è intervento su cui ciascuno di noi si sentirebbe senz’altro di concordare. Meno noto, forse, è il percorso attraverso il quale questa norma è discesa nelle nostre grammatiche fino a diventare assioma che campeggia ancora nei manuali di scrittura più in voga nelle università italiane. Ebbene, la codificazione normativa dell’uso pronominale è una delle tante curiosità che trovano spiegazione nel nuovo e accattivante volumetto di Giuseppe Patota La quarta corona Pietro Bembo e la codificazione dell’italiano scritto (Il Mulino «Studi e Ricerche», pp. 176, € 17,00).
Formatosi nella Venezia umanistica di fine Quattrocento, figlio del dottissimo e facoltoso patrizio e diplomatico Bernardo, fin da giovane Pietro Bembo ebbe modo di viaggiare e conoscere le diverse realtà linguistiche della penisola. Tali esperienze metteva a confronto con un continuo e approfondito tirocinio nella lingua latina e greca (si recò a Messina proprio per studiare il greco con uno dei più famosi maestri del tempo, Costantino Lascaris, e durante quel soggiorno intraprese, lasciandocene un vivace resoconto, l’ascesa dell’Etna). E sul greco e il latino, sulla lingua, la grammatica, gli auctores, rifletteva costantemente grazie anche a incontri con maestri straordinari come il professore-filologo, nonché poeta, Angelo Poliziano, con cui collazionò il venerando codice di Terenzio oggi Vaticano Lat. 3226. Fu forse proprio il contrasto tra l’apparente stabilità e fissità delle lingue classiche, tra la poderosa eredità di quelle letterature da un lato, e la fluidità dei volgari della nostra penisola e della loro neonata letteratura dall’altro, a stimolare un profonda riflessione sulla natura e sulla struttura dell’italiano. In ogni regione vigeva una parlata diversa. La stessa Toscana, che pure si fregiava dei nomi di Dante, Petrarca e Boccaccio – le cosiddette Tre Corone – esibiva sensibili divaricazioni da comune a comune, da borgo a borgo, da torre e torre. E i Toscani del Cinquecento parlavano una lingua abbruttita, decaduta, caricaturale rispetto al fiorentino che Bembo conosceva attraverso le opere dei grandi padri, e più ancora rispetto a quello che poté ammirare quando ebbe in mano niente meno che l’autografo delle rime del Petrarca (Vat. lat. 3195).
Produrre una norma stabile
Bembo si rendeva conto che la nuova lingua e la nuova letteratura stavano ormai bussando, potentemente, alla porta e che bisognava prenderne atto. E questa lingua e questa letteratura, così come il latino additava a modelli Virgilio e Cicerone, avevano i propri classici e i propri auctores. Occorreva studiarli, esaminarli, codificarli. Bisognava produrre una norma stabile, fissa, sicura che mettesse al riparo dalle continue insidie delle parlate regionali e dialettali, ma anche dal toscano contemporaneo, plebeo e oscillante: e la norma fu trovata e cavata proprio dai grandi scrittori del Trecento, producendo edizioni a stampa impareggiabili grazie a piombi e torchi dell’umanista tipografo Aldo Manuzio (Petrarca nel 1501, e Dante nel 1502), e poi la prima – le Regole della lingua volgare di Fortunio precedettero, ma ebbero impatto assai minore – vera grammatica dell’italiano: le Prose della volgar lingua (1525). Era un salto indietro di oltre duecento anni, una forma di classicismo non dissimile da quello praticato per il latino che ripudiava Apuleio a favore di Cicerone: era l’esautorazione della lingua viva di Firenze, con buona pace del segretario Nicolò Machiavelli, ma era un’operazione che, finalmente, forniva indicazioni chiare, perenni e riproducibili, e che, per Bembo, sanciva il ruolo di ‘quarta corona’. L’Italiano si fermò, cristallizzato in una perfezione senza tempo, che si trasmise alle generazioni dei futuri grammatici.
Nel suo bel volumetto Patota spiega che il titolo originario della grammatica era forse diverso da quello che conosciamo, ma ciò che interesserà di più al lettore comune è forse proprio la storia delle regole dell’italiano. E così si ritorna alla maestrina con la penna rossa e si scopre che fu proprio Bembo a diffondere l’uso di le per a lei e gli per a lui: una norma che non «precipitò», come ben chiarisce Patota, direttamente dalle Prose alle grammatiche sette-ottocentesche, ma che costituì una sorta di vulgata poi affermatasi nella lingua colta. Lo stesso dicasi per la norma sugli ausiliari accompagnati ai verbi servili (se io fossi voluto andare, non se io avessi…, che «non si potrebbe poscia sciogliere e dire se io avessi andato»). Cadde invece l’imperfetto indicativo di prima persona con desinenza in –a (io aveva) che ancora persisteva negli autografi delle Confessioni di un Italiano di Nievo e che oggi, auspice il Manzoni, è stato rimpiazzato da quello in –o (io avevo, ma pare che nei Promessi Sposi Manzoni abbia dimenticato di correggerne uno).
Peripezie biografiche
Per chi desiderasse sapere qualcosa di più sulla figura del Bembo che, nato giovane umanista finì la carriera come influente cardinale, è ora disponibile il ricco saggio di Marco Faini (L’alloro e la porpora Vita di Pietro Bembo, Edizioni di Storia e Letteratura, pp. 200, € 26,00). Un bel volume in carta patinata adatta a ospitare il ricco corredo iconografico; perché questa Vita si snoda attraverso una lunga teoria di nitide immagini a colori che guidano il lettore nelle peripezie biografiche del cardinale tra delizie tipografiche e capolavori artistici quattro-cinquecenteschi. Si comincia con una bella riproduzione della prima pagina del De Aetna dove il giovane Pietro, come si diceva, descrive la propria ascesa al vulcano. Il libello segna l’avvio della collaborazione col Manuzio che non solo condusse agli elegantissimi enchiridia (libelli senza note in piccolo formato in 8°) di Dante e Petrarca ma anche aprì il catalogo del geniale editore-umanista alla letteratura volgare: il sodalizio con Manuzio sarà elemento essenziale per il successo dell’operazione culturale del Bembo. Di lì a poco sarà la volta dei celebri Asolani (1505), dialoghi amorosi in volgare, dove appaiono in re molte delle norme che sostanzieranno le future Prose. Poi è un continuo spostarsi di corte in corte: Ferrara, Urbino e infine Roma, dove Bembo divenne subito segretario ai brevi di papa Leone X. A Roma e al mondo della filologia classica ci riconduce il Tommaso Inghirami (detto Fedra dalla sua passione per la tragedia senechiana) raffigurato da Raffaello in un’altra splendida tavola: toscano d’origine ma romano d’adozione l’Inghirami è protagonista del dialogo De Virgilii Culice et Terentii fabulis messo in scena da Bembo a fine Quattrocento, ma scritto forse nel 1504 e stampato molto dopo, in cui si trovano a dibattere sui loci difficiliores dei due poeti latini due campioni dell’umanesimo erudito come Ermolao Barbaro e Pomponio Leto: è quasi un controcanto, l’ultimo saluto per un mondo, quello della filologia umanistica, che in Italia si stava avviando al tramonto.
Nel 1521 Bembo tornò a Venezia e poco dopo si stabilì a Padova dove diede vita a una vera e propria casa-museo destinata a ospitare tutti i suoi oggetti più preziosi (monete, epigrafi, statue, e i rarissimi manoscritti) e ad accogliere degnamente gli amici umanisti in visita. Nel ’39 venne la nomina a cardinale: così tutti lo ricordiamo, nel bellissimo ritratto tizianesco della National Gallery di Washington che campeggia sulla copertina del volume.