Nel corso del secolo XIII, i mongoli avevano dato vita a un impero continentale che andava dalla Cina alla Persia e, nella compagine settentrionale, alla Russia; un impero che nella sua struttura unitaria non era durato a lungo, ma che aveva segnato la storia del continente. Diversi viaggiatori europei, da Giovanni di Pian del Carpine a Guglielmo di Rubruck a Marco Polo, approfittarono della cosiddetta Pax Mongolica per raccogliere informazioni essenziali a proposito di un Oriente fino a quel momento sconosciuto.
Il grande khanato del Ciaghatay, compreso tra il fiume Oxus (l’odierno Amu Darya) e la Mongolia, si era diviso fra un’area orientale, nelle mani di tribù ancora favorevoli alla cultura tradizionale, e una occidentale, maggiormente islamizzata, sebbene non dimentica della cultura originaria. A quest’ultima zona apparteneva il villaggio di Haji Ilgar, dipendente dalla città di Kesh, oggi Shahr-i Sabz, «la Città Verde», situato a un centinaio di chilometri a sud di Samarcanda. Qui nel 1336 nacque Timur («Ferro»), da noi meglio noto come Tamerlano. Nel 1369, dopo un’accorta strategia guerriera di sottomissione delle diverse tribù, Tamerlano si trovò a essere il padrone dell’intera Transoxiana. L’anno successivo egli assunse il titolo di emiro, una parola araba con la quale intendeva sottolineare la sua pietas musulmana.
Nel frattempo aveva sposato una discendente di Genghiz Khan, la principessa Saray Malik Katun, il che gli conferiva il diritto di fregiarsi del titolo di kürgen, «Genero Imperiale». Secondo il nuovo corso impresso alle sue ambizioni, che lo conducevano sempre più lontano dalle originarie tradizioni nomadi delle tribù turco-mongole, egli decise d’insediarsi anche in una vera e propria capitale: scelse Samarcanda, una città famosa perché vi aveva soggiornato Alessandro Magno: era anche l’emporio più importante situato lungo la Via della Seta. Tanto Tamerlano quanto i suoi immediati successori avrebbero fatto delle città di questa regione, l’attuale Uzbekistan, dei centri artistici e scientifici di grande bellezza e importanza.
Nei tre decenni successivi egli condusse campagne militari travolgenti e spietate,  in tutte le direzioni; tra i potentati mediterranei che potevano fargli ombra, solo quello ottomano era in grado di resistergli. E proprio l’avanzata dei turchi verso Occidente fece pensare agli occidentali che gli interessi dell’Europa e del khan di Samarcanda coincidessero. Il principe bizantino Giovanni, che il basileus Manuele partendo per l’Europa aveva lasciato a Costantinopoli come reggente, si accordò con il podestà genovese di Galata per stabilire contatti con il khan; interessato al progetto era anche il re di Francia. Bisanzio era ormai costretta a pagare un tributo a Bajazet, che Giovanni si diceva disposto a corrispondere al nuovo alleato. Giovanni offriva a Tamerlano il tributo che fino ad allora l’impero aveva pagato a Bajazet, a patto ch’egli attaccasse e sconfiggesse quest’ultimo.
Nel 1400 Tamerlano mosse dunque verso la Siria: in quella contingenza si trovava tra Damasco e Gerusalemme un viaggiatore senese, Beltramo di Leonardo Mignanelli, singolare figura di orientalista avant la lettre, al quale dobbiamo una preziosa testimonianza di quella vicenda, così come una messe di notizie sul grande condottiero mongolo, inedite per il tempo. La figura e l’opera di Beltramo, a lungo ignorate dalla storiografia, nonostante l’importanza del personaggio, sono ora ricostruite magistralmente dal lavoro di Nelly Mahmoud Helmy, Tra Siena, l’Oriente e la curia. Beltramo di Leonardo Mignanelli e le sue opere (Istituto storico italiano per il Medioevo, pp. 442, euro 50). Esponente di un importante casato senese, mercante, viaggiatore, umanista addentro agli ambienti papali, Beltramo partecipò con ruoli di interprete ad alcuni dei principali concili dei primi del Quattrocento, da Costanza a Firenze. Ma riuscì anche a costruirsi una notorietà per la sua conoscenza dell’Oriente e dell’Islam, scrivendo (oltre al testo già ricordato su Tamerlano) trattati di controversistica, cronache sulla storia del sultanato di Egitto e Siria tra Tre e Quattrocento, un progetto di crociata, un trattato sulla religione islamica, uno studio filologico sulle varianti arabe del libro dei Salmi, nonché sviluppando interessi nell’ambito dell’astronomia.
Tra Siena, l’Oriente e la curia dà conto dell’insieme della sua attività; è un libro che non sarebbe stato possibile, data la natura specialistica del tema e il suo valore di scoperta, senza l’appoggio dell’Istituto storico italiano per il Medioevo: istituzione che, giusto lo scorso anno, ha compiuto 130 anni di vita e che, come biblioteca (nella sua sede storica di Palazzo Borromini a Roma), centro di studi e ricerche, scuola di specializzazione nell’ambito degli studi medievistici, sede di convegni, casa editrice non ha mai smesso di animare la vita culturale della repubblica, pur dovendo confrontarsi con le difficoltà economiche che affliggono l’alta ricerca italiana.
Allo stesso tempo, va sottolineato che il libro di Nelly Mahmoud Helmy non è accessibile dai soli specialistici, perché getta luce su un momento particolarmente proficuo della nostra storia culturale, mostrando che il Rinascimento non si è esaurito, come manualisticamente si continua ancora a dire, nella scoperta del mondo classico; non solo perché il Medioevo a sua volta non l’aveva mai dimenticato, ma anche perché la cultura umanistica agì come rielaboratrice di interessi ben più ampi: proprio quello per l’Oriente, islamico e non, meriterebbe un’attenzione maggiore e la figura di Beltramo di Leonardo Mignanelli è esemplare nel mostrarcelo.