La carriera di Bernardo Bellotto si svolge tutta nel segno dell’esplorazione. A tracciare su una mappa i luoghi della sua vita ne nascerebbero tante traiettorie da confermare la fisionomia di un pittore del tutto slegato da un singolo luogo e dalla forte identità cosmopolita: di base a Venezia, poi a Firenze e a Roma, un periodo in Lombardia, quindi a Verona e alla corte sabauda di Carlo Emanuele III, e infine in Sassonia e in Polonia. Ogni posto contribuisce a dilatare l’esperienza di quello che è stato definito «il ritrattista delle città europee» (Argan) verso esigenze sempre diverse, svelando quanto il genere della veduta dipinta possa essere permeabile allo spazio e al tempo. La mostra Bernardo Bellotto 1740 Viaggio in Toscana (a cura di Bozena Anna Kowalczyk, Lucca, Fondazione Ragghianti) esplora uno di questi spostamenti, quello in terra granducale, raccogliendo la quasi totalità di prove visive scaturite dal soggiorno.
L’artista approda a Firenze nella primavera del 1740, a diciannove anni. La sua acerba professionalità si è esercitata fino ad allora all’ombra del grande Canaletto, il fratello della madre Fiorenza, che lo ha indirizzato a comporre dipinti come la Veduta del Canal Grande del Musée des Beaux-Arts di Lione e il Campo Santi Giovanni e Paolo del Museum of Fine Arts di Springfield. Quanto basta perché se ne accorga il conoscitore e antiquario Anton Maria Zanetti, e dietro a lui molti collezionisti fiorentini. Non è la solita clientela di gran turisti alla ricerca di un souvenir della città visitata; c’è un pubblico interessato a un contatto visivo diverso col paesaggio urbano di appartenenza a scommettere che il giovane nipote di Antonio Canal riesca già a produrre qualcosa di suo. La presenza del Bellotto è l’occasione per instillare lo spirito moderno della veduta lagunare nella pittura fiorentina, proprio quando sta vedendo la luce una campagna di catalogazione sistematica dell’immagine di Firenze in forma d’incisioni, su patrocinio del marchese Andrea Gerini e per mano di Giuseppe Zocchi.
Lontano dal conforto di percorrere strade già collaudate dallo zio, Bernardo allena mente, occhi e pennello a nuove sollecitazioni e rafforza la sua personalità, gettando le basi per la svolta del vedutismo che maturerà di lì a qualche anno in direzione di un assoluto protagonismo del soggetto naturale. L’artista monta intorno a Piazza della Signoria e al fiume Arno visto da varie angolazioni delle scene clamorose. Il punto di partenza è il riscontro scaturito dalla cattività visiva nella camera ottica, un congegno di lenti e specchi che addomestica la realtà e la convoglia sul foglio del disegnatore. Non è però la fredda abilità prospettica (il bagaglio che la famiglia Canal si trasmette quasi geneticamente di padre in figlio) a guidarlo, ma una nuova competenza del reale che concilia la monotonia di una visione cerebrale con la poesia della concretezza pittorica. Bellotto fa parlare l’immaginazione e fonde il piccolo dato di quotidianità alla riflessione universale, senza dissipare quel sapore di esattezza geometrica che può illuderci di vedere una foto.
I quadri fiorentini scandiscono a coppie tre fasi successive di maturazione del suo sguardo. All’inizio la sua pittura è soltanto un ruscello, la cui fonte è Canaletto: Piazza della Signoria e l’Arno dal Ponte Vecchio fino a Santa Trinita e alla Carraia (Budapest, Szépmuvészeti Múzeum, già collezione dei marchesi Riccardi) esaltano il panorama fluviale ancora nel ricordo della luce veneziana.
Ci vuole più di tempo perché Bellotto maturi una nuova consapevolezza e così fa nei due dipinti cronologicamente posteriori: l’Arno dalla Vaga Loggia e l’Arno al Tiratoio, verso il Ponte Vecchio (collezione privata, già quadreria Gerini). L’Arno verso il ponte Vecchio e l’Arno verso il ponte alla Carraia del Fitzwilliam Museum di Cambridge, gli ultimi della serie, rappresentano uno stadio avanzato al punto da indurre (per le affinità con tele come Piazza del Campidoglio, Petworth House, Sussex) a pensare che il pittore sia tornato nuovamente a Firenze attorno agli anni 1743-’44, quando la sua crescita era ormai avanzata nell’incontro con l’Urbe. «La materia corposa, la stesura particolarissima dell’acqua lucente piena di riflessi e del cielo con le nuvole bianche consistenti a rilievo esprimono la maturità acquisita a Roma e poi arricchita con l’osservazione della natura in Lombardia», scrive la curatrice nel catalogo.
Non si sa molto del soggiorno di Bernardo Bellotto a Lucca. Per Pietro Guarienti, il suo primo biografo (che scrive nel 1753, solo tredici anni dopo quel viaggio), addirittura è come se non fosse mai esistito. Fortuna che la Veduta di piazza san Martino della York City Art Gallery ne ha tenuto viva la memoria, guidando le ricerche documentarie più recenti verso solide consapevolezze, tra cui la coincidenza cronologica col periodo fiorentino. Resta, invece, ignoto il nome del mecenate che ne promosse l’arrivo.
Cinque disegni (abitualmente raccolti in album presso la King’s Topographical Collection della British Library ed esposti in mostra eccezionalmente in forma individuale) costituiscono un’antologia dello spazio circostante la cattedrale di Lucca da varie visuali e della chiesa di Santa Maria Forisportam e documentano il lavoro del Bellotto per immedesimarsi nella natura lucchese. La schedatura lo conduce (in anticipo su operazioni analoghe con la Fortezza di Königstein in Germania e il Castello di Wilanòw a Varsavia) a corteggiare i monumenti da ogni lato, accedendo agli osservatorî più disparati fino ad avventurarsi anche sui tetti.
Bernardo Bellotto è, a tutti gli effetti, l’inventore del genere «veduta di Lucca». L’esposizione della tela di York in città accende grande entusiasmo, diventando la traccia di riferimento per tutti i pittori che si sarebbero dedicati al soggetto. Nelle loro mani l’iconografia confezionata è soggetta a trasformazioni e continui aggiornamenti, di pari passo con le mutazioni che lo stesso ambiente cittadino avrebbe conosciuto negli anni a seguire. Gli esiti di questa fortuna si misurano a distanza nelle almeno cinque copie o derivazioni (due presenti in mostra) dalla Piazza San Martino. Nessuna di loro eguaglia comunque l’accuratezza e lo splendore dell’originale.
Il viaggio del 1740 (nel cui novero va incluso anche un possibile passaggio per Livorno) è qualcosa di più che un episodio nello svolgimento iniziale dell’arte di Bernardo Bellotto. In un crescendo di maturazione professionale senza sosta, molto del futuro vedutista europeo può essere riconosciuto già negli scenari toscani.