Franco Califano era l’ultimo dei belli. E dei bulli. Playboy nella Dolce Vita, quando aveva trasferito nei night di Via Veneto – il Number One, il Club 84 – la sua sfrontatezza antiborghese alla Jean Paul Belmondo, un certo saper vivere appreso nelle bische del popolare quartiere romano di Trionfale, e una bellezza già messa a frutto come attore di parti da cattivo nei fotoromanzi.
Amico del gangster Francis Turatello negli anni milanesi – di cui fu il cantante personale, come e più di un film poliziottesco -, e di Bettino Craxi che lo tirò fuori dalla galera dove era finito assieme a Enzo Tortora. «Il fatto non sussiste», dichiarò in seguito il tribunale, ma senza troppe scuse: maudit in buona parte suo malgrado, quell’alone Califano se lo portò dietro per tutta la vita. Amico del maledettissimo Piero Ciampi, anarchico e livornese (lui invece, di destra e romano nato a Salerno): fecero a botte, si vollero bene. Quando Ciampi morì, Califano gli dedicò Io non piango.
Filosofo di strada, tiratardi e galante fino alla fine, quando uno stuolo di ammiratori lo coccolava e lo venerava. Antifemminista, diceva di sé. In realtà sopravvissuto degli anni ’70 come e meglio di tanti altri, testimone di quella Roma di night, cortei, misteri, ministeri, messa in scena recentemente dalla serie Romanzo Criminale con più di un esplicito omaggio proprio a lui. Non solo. I comici lo imitavano, i giovani musicisti romani lo chiamavano Maestro. Tutti pronti a gustarsi a ogni ospitata televisiva i vecchi aneddoti di donne e criminali in puro sapore hip-hop, col retrogusto di viagra e cocaina. Il tempo non fa sconti per nessuno. Aveva scritto due o tre autobiografie. I teatri, quando c’era lui, si riempivano ancora come una volta, anche più.
Diventò autore, poi interprete di canzoni e monologhi romaneschi, soltanto dopo i trent’anni. Curiosamente, solo dopo il trasferimento a Milano dove Califano lavorò nel cuore dell’industria della canzone e scrisse testi per Edoardo Vianello, Bruno Martino (E la chiamano estate), Ornella Vanoni (La musica è finita), Mina (Amanti di valore), Mia Martini (Minuetto). Molte gemme del canzoniere popolare italiano. Prima di affinare un personaggio che invece fu soltanto suo, per voce e fisicità. Un po’ Serge Gainsbourg, un po’ Tomas Milian. Nei primi dischi, tra il 1972 e l’’80, che restano i migliori, mise a punto un teatro-canzone profondamente legato alla maschera romanesca del bullo, già amatissima nei primi anni del secolo da intellettuali e eruditi proprio come un piacere colpevole, un cult antelitteram. Maschera che però, nell’interpretazione del Califfo, suonava inevitabilmente crepuscolare, spesso al limite del comico.
Specie nei monologhi (che di quella tradizione teatrale restano la forma più nota), come Secondo me l’amore, Beata te, te dormi, Pasquale l’infermiere, Balla ba, Avventura con un travestito. Intrasmettibili da qualsiasi radio e tv dell’epoca per la franchezza delle espressioni e delle situazioni, quindi destinati a una circolazione teatrale e semiclandestina. Dove l’attitudine spaccamontagne dei vecchi bulli di quartiere si scontrava regolarmente con mille ridicole incombenze quotidiane, scenette dell’odiatissimo matrimonio. Un anticlimax accompagnato dalle silenziose e crudeli risate di un coro di soli uomini che tentava così di esorcizzare i propri fallimenti e la propria ingombrante virilità.
Mogli vanitose, sceme, oppure mitologicamente arrapate («Ne ho conosciute tante de mignotte/ ma te lo giuro tu le freghi tutte»), maschere da commedia sexy, mantidi rifatte da capo a piedi (Cesira), comunque capaci di rendere infernale la vita dell’ex bello e dell’ex bullo che «lavora e butta er sangue» tutto il giorno e, alla sera, deve portare a spasso il cane Piercarlino, adempiere ai doveri coniugali prima di dormire molto male perché «li buffi c’hanno invaso casa». E se è festa essere trascinato in discoteca a farsi pestare i piedi da una cicciona, e se è domenica c’è la Roma (la Roma regolarmente perde, ma il Califfo tifava Inter). E la volta che tenta l’avventura sarà naturalmente «con un travestito» che però s’era ben mascherato.
Un teatro domestico ambientato nei mille condomini romani del boom e del sacco di Roma, nei quartieri impossibili della periferia, fin dentro la mutazione antropologica raccontata nella stessa epoca da Pasolini (Califano gli aveva dedicato una delle sue ultime canzoni). Il coltello, l’osteria e la mamma in fin di vita dei primi del secolo, sostituiti da un due camere e cucina, la millecento in garage, un bel po’ di sogni svaniti. Un teatro per adulti, nel quale l’impresentabile piccolissima borghesia romana (impresentabile letteralmente, dal punto di vista sociale) poteva riconoscersi con una precisione e un darsi di gomito che la tv di allora non poteva nemmeno sfiorare.
Contemporaneamente, il cinema di genere regalava a quello stesso pubblico fantasie gangsteristiche e sogni sexy. I monologhi di Califano – che alle colonne sonore di quel cinema rubavano spesso le atmosfere – raccontavano invece una specie di immutabile, per nulla fantastica verità dell’esistenza quotidiana. Il Maestro infine riservava per sé nelle canzoni-canzoni che mischiavano tradizione romana e forme da cantante confidenziale, la parte dell’autobiografia: le mille variazioni dell’amore, mai idealizzato, il lato romantico della solitudine, la nostalgia. Qualche volta sfidava il ridicolo. Altre volte, la proverbiale tenerezza del bullo gli dettava le parole giuste. L’ultimo amico va via – canta nella struggente addio alla sua gang di quartiere – domani se va a sposà. Ovviamente. Ti saluto gioventù eccetera.
Non escludo il ritorno, aveva cantato a Sanremo. Il suo epitaffio. Testimone di una Roma sparita al limite del mitologico, forse nemmeno mai esistita se non al cinema (come e più delle vecchie cartoline coi vicoli di Trastevere e dei quartieri caduti sotto il piccone di Mussolini), Califano era tornato, come si dice della fortuna di una cantante, più di una volta. Ma di quella nostalgia del tempo andato via, in fondo, erano fatte le sue canzoni.