La vicenda editoriale dei Sonetti di Giuseppe Gioachino Belli è tutta postuma. Il «monumento di quello che oggi è la plebe di Roma», uno dei capolavori della nostra letteratura, doveva andar distrutto nelle intenzioni dell’autore, che all’opera fu legato da un rapporto apparentemente controverso se, mentre ne raccomandava l’incenerimento, guardava bene di affidarla – in bella copia – a mani sicure, sicuro che al rogo non avrebbero provveduto. Pochi componimenti circolarono – e clandestinamente, senza permesso – fin quando fu vivo il poeta, che in serate ricorrenti li leggeva agli amici nelle case di Roma, impassibile come una specie di Buster Keaton: le testimonianze dicono che all’Accademia Tiberina, per i suoi versi italiani, quell’«ometto di mezzana statura, colla faccia amara tinta d’itterizia, colle movenze penose d’un malato di fegato» (secondo le antiche dottrine l’umor nero, dal quale Belli fu assediato fino a grave ipocondria, ha la sua origine nel fegato e nella bile), a un certo punto, tra «un mormorio d’aspettazione», sollecitato, «cavava di tasca un foglio, lo apriva, vi metteva sopra l’occhialetto, poi alzava la testa e annunziava il titolo al pubblico», prima di scandire distintamente. Per versi dialettali, riservati a pochi felici e fidati, «sorbendo il caffè, dopo essersi fatto un po’ pregare, ci recitava quei suoi sonetti che noi dicevamo proibiti. Pareva egli non potesse declamare a modo, se non sedeva comodamente, e non metteva in capo un berrettino di seta nera, che durante la recitazione veniva rigirato sul cranio. Non era possibile non smascellarsi dalle risa, sopra tutto per la serietà a cui atteggiava il suo volto sbarbato, e per se stesso severo, sul quale invano avresti aspettato un sorriso». Non si vuole far passare inosservata quell’impassibilità: non solo un artificio che per contrasto esaltava il comico, ma una presa di distanza dalla materia dei sonetti: lì parlava la plebe, non Belli. Infine, evitava perfino le repliche, perché nessuno potesse mandare a memoria quei versi. Ma la fama anche fuori d’Italia, prima con Gogol’ poi con Sainte-Beuve, era pronta a deflagrare.
Con le edizioni, si iniziò due anni dopo la morte del poeta (1863), nel 1865-’66, con la scelta «travestita» (Vergara Caffarelli) e «castrata» (Vigolo) edita dal Salviucci e dovuta al figlio Ciro e ad altri amici cautelosi non solo per ciò che riguardava il dire franco (per esempio, in La vita dell’Omo, un verso di stanca rassegnazione nell’abitudine che tutto di sé avvolge «lo spedale, li debbiti, la fica» diventava, con un rifacimento che ne trascinava altri per la rima, un banale «lo spedale, li debbiti, li fijji»); ma cautelosi anche per ogni segno rabbioso o rivoltoso («bono assai l’abbozzà, mejjo er cortello» diventava nientemeno «bbono l’abbacchio, mejjio assai l’agnello»: chi conosce Le cose create può immaginare da quale scempio venga travolto l’intero sonetto).
La prima edizione accurata e semi-integrale (1886-’89) fu dovuta a Luigi Morandi, che vi appose un’ampia introduzione e importanti note storiche, ma che occasionò il primo disguido a una lettura corretta, raccogliendo nel famigerato «Sesto» i testi considerati osceni: il sesto volume di quell’edizione era venduto in busta chiusa e stampava delle «brutte parole» la lettera iniziale e la lettera finale: in mezzo, tanti puntini quante erano le lettere ammutolite. Un best-seller.
Quando, nel 1952, vide la luce l’edizione critica dei Sonetti curata da Giorgio Vigolo, che aggiungeva i più di cento sonetti ritrovati da Pio Spezi, un articolo sulla «Strenna dei romanisti» salutò l’evento con un bell’avverbio con punto esclamativo: «Finalmente!». Vigolo, con qualche eccesso di raffinatezza, era stato già da decenni il promotore di una lettura di Belli in chiave moderna e decisamente maledetta, tanto da consigliare di arrivare al poeta via Rimbaud e viceversa. Il saggio introduttivo, poi raccolto nel capitale Il genio del Belli (1963), dava conto di una lettura lunga e intensa, altamente meditativa, iniziata già prima della scelta curata per «I classici del ridere» di Formiggini (1930-’31).
Seguirono edizioni che, sulla scia dell’impresa filologica di Vigolo, ma con semplificazioni grafiche, spinsero Belli verso una lettura diffusa: una rapida annotazione di Bruno Cagli (’64) e soprattutto la stampa in una prestigiosa collana di grande diffusione come l’Universale Feltrinelli (’65), annotata da Maria Teresa Lanza e con la supervisione di Carlo Muscetta, furono i passaggi editoriali successivi.
Qualche decennio dopo, i tempi erano ormai maturi per l’edizione nazionale delle opere belliane. Ad oggi sono state stampati solo i sonetti con l’aggiunta di altri componimenti, col titolo di Poesie romanesche (1988-’93), in una solenne edizione in dieci volumi (gli ultimi due doppi) commentata da Roberto Vighi, che al lucido, adamantino commento, annotante grafia e varianti, aggiungeva alcuni indispensabili strumenti (metrica, lessico). Vighi, rispetto a Vigolo, mutava la disposizione e l’ordine dei testi, filologicamente rivisitati. A questa imponente impresa si rifaceva per il testo quella che era finora l’ultima edizione, ampiamente commentata, dell’opera, curata nel 1998 da Marcello Teodonio, instancabile promotore del poeta e suo biografo (e si vogliono qui ricordare, sulla vita, i tre volumi dedicati a Belli e la sua epoca da Guglielmo Ianni).
«Finalmente!» è esclamazione da riproporre adesso che, a cura di Pietro Gibellini, del compianto Lucio Felici, romanista – e non solo – di valore, e di Edoardo Ripari, della nuova leva dei bellisti, appare un’edizione critica e commentata che sarà di riferimento per molto tempo, e che molto tempo richiederà per essere valutata pienamente, ricca di novità come è (I Sonetti, Einaudi «I Millenni», con 48 tavole introdotte da Diana Samà, pp. CLVIII-5038, € 240,00), e della quale si auspica quanto prima un’edizione economica perché possa diventare strumento anche di studio. Ciò che va segnalato come novità si declina in vari punti, che qui si riesce poco più che a elencare: intanto la tripla introduzione di Gibellini, attento filologo e acuto interprete di Belli da mezzo secolo, che raccoglie motivi e suggestioni critiche nell’introduzione vera e propria, Belli, moderno Dante (titolo non iperbolico); ricostruisce a parte le vicende biografiche (fornendo al lettore anche i titoli per un percorso antologico); e infine nella nota filologica raduna le questioni non solo strettamente testuali, ma anche relative alla ricezione dell’opera. L’ordine dei sonetti (vexata quaestio) viene risistemato sul ripercorrimento degli autografi, così come la grafia (altra vexata quaestio); le note, come ormai di consueto in doppia fascia, separano quelle di mano dell’autore – che in tal modo si costituivano quale memoria di una lingua morente ma mai morta – da quelle degli attuali curatori, che puntualmente citano dai commenti precedenti (così che l’annotazione è un punto di arrivo autentico, ben fondato su un ormai più che secolare lavoro): in più, ciascun sonetto è accompagnato da un vero e proprio saggio, più o meno esteso, nel quale confluiscono osservazioni che vanno dal momento storico alla valutazione estetica, in dialogo con la tradizione letteraria, tra fonti e – non di rado – foci: la ricostruzione di un mondo frammentato in 2279 sonetti. Va dunque detto che la somma dei saggi si presenta come un’enciclopedia delle cose romane ai tempi del poeta, un vivido e appassionante percorso brulicante di richiami: e il gigantesco poema costituito da sonetti, nel quale si entra da ogni parte, diventa un impressionante prosimetro, una città in vita nella quale viaggiare senza sosta. Il lettore non pago troverà, in un’appendice filologica, l’apparato delle varianti d’autore, i sonetti incompiuti, e le poesie romanesche in altro metro. L’indice dei titoli richiama per ogni sonetto la disposizione che aveva nelle precedenti edizioni di riferimento di Vigolo e di Vighi (probabilmente la mole dell’opera non ha invece consentito né un incipitario né un indice dei nomi e delle cose notevoli, che anche per Vigolo apparve dalla terza edizione).
La domanda, come sempre, è: chi parla nei sonetti di Belli? Di chi sono quelle parole che vorrebbero presentarsi come fermate su nastro magnetico direttamente dalla bocca dei plebei e soltanto scandite in endecasillabi dal poeta? Ne consegue, ed è già un tentativo di soluzione, la constatazione che la grandezza di quella poesia, la sua forza, dipende molto dalle mani in cui va a finire, sciogliendo ambiguità e oscillazioni ideologiche e stilistiche in vario modo. Così, oltre che il Belli osceno confinato al «Sesto» in un protratto momento di pruderie che non teneva conto come il motto del libro sarebbe dovuto essere il rifacimento di lasciva est nobis pagina, vita proba, ovvero «Scastagnamo ar parlà, ma aramo dritto», abbiamo avuto l’equivoco di un Belli reazionario contrapposto a un Porta progressista, che – per esempio nello schema di Sapegno – portò a una quasi liquidazione del Belli, confuso con i suoi personaggi e assorbito nel contesto della Roma di Gregorio XVI («A papa Grigorio je volevo bbene perché me dava er gusto del potenne dì male» è scritto in un appunto) tanto quanto Porta era visto soltanto con lo sfondo dell’Illuminismo lombardo (del poeta meneghino, il poeta romano fu notoriamente grande ammiratore, costringendosi a grave esborso per acquistarne le rime); e abbiamo avuto un Belli progressista, contro tutto e tutti e anche un po’ contro l’evidenza, a partire dall’interpretazione friabile di un concetto letterario difficilmente definibile nella modernità, il realismo, che non è quasi mai coincidente col progressismo, ed è notoriamente, da Auerbach in poi, un fatto di registri linguistici e stilistici. Una volta percepita la grandezza di questa poesia, la domanda appare con tutta evidenza mal posta.
La realtà di Belli è molte cose, così come il suo popolo, la plebe di Roma. E di ciò il poeta ebbe piena consapevolezza: la varietà del «Commedione» (come si intitolava la storica antologia approntata da Antonio Baldini, 1944) o della «commedia romana e celeste», per evocare un titolo innovativo nella bibliografia belliana (’69), di Giuseppe Paolo Samonà, crea un vero e proprio sistema di mondi che si sfiorano, interferiscono, meditano, rappresentano; e il coro delle migliaia di voci è sì il coro dei dannati della terra, ma regolarmente messo a vista dallo sfregio, dall’invettiva, dal comico, dal sarcasmo, dall’ironia e da un’impassibile serietà.
A proposito di Un ber gusto romano, sonetto dedicato allo sfregiare i muri da parte di adulti con dentro sonnecchiante ma pronto a svegliarsi un antico monello, ha giustamente osservato Gibellini che «gli stessi esempi di segni tracciati a carbone o graffiati col sasso sembrano riassumere il ventaglio complesso dei sonetti: cumuli pazienti di tessere per il gran mosaico della plebe di Roma (cifre), bozzetti e ritratti (pupazzi), giochi ambigui di senso e raffinate architetture formali (nodi di Gordio, nodi di Salomone), accensioni fantastiche (numeri e previsioni del lotto), irriverenza di suoni e di cose (parole e disegni osceni), ma anche la satira incisiva, tracciata col bastone del castigo, col sasso della selciata, col chiodo della tenacia».
Una Wunderkammer rovesciata e vocale, prima per l’orecchio e poi per la vista e poi per gli altri sensi: nei Sonetti tutto il malumore e tutta la maldicenza del mondo sono riversati in comico atrabiliare. La noirceur di Belli presume di tenere a distanza la plebe, di scrutarla come un paesaggio di insetti, ma l’entomologo invischiato – che voglia o no – si trova a essere parte in causa. Chi parla nei sonetti di Belli è la plebe di Roma, ma chi parli davvero resta un mistero pieno di meraviglie, uno stupore nuovo a ogni rilettura.