Provocazione intellettuale e reiterato sperimentalismo sono alcune cifre della narrativa cosmopolita di Mario Bellatin, la cui opera eterogenea costituisce un universo autonomo nella narrativa messicana. La sua fisionomia eccentrica e tentacolare è, del resto, già da tempo oggetto di culto da parte di un nutrito gruppo di lettori-adepti.
Composto da più di quaranta titoli, alcuni dei quali – Flores e El libro uruguayo de los muertos – hanno ricevuto riconoscimenti prestigiosi, questo cosmo narrativo è saldamente concertato dal suo autore-demiurgo, che ne espande i confini ben al di là della parola scritta e ‘sepolta’ nel libro. Bellatin, infatti, è uno degli autori più inclassificabili dell’attuale panorama letterario ispano-americano: la definizione stessa di ‘scrittore’ è nel suo caso, riduttiva, perché inadeguata a descrivere compiutamente la natura eclettica del suo progetto artistico-letterario, e impossibilitata a registrare le molteplici risonanze della sua narrativa.

Il braccio mancante
Una nuova occasione di apprezzarla ci è data nelle pagine di Shiki Nagaoka: un naso di finzione (traduzione di Vittoria Martinetto, Autori Riuniti, pp. 120, e 13,00). Come precisamente osserva lo scrittore e critico argentino Alan Pauls nella sua bella postfazione, a volte si ha l’impressione che l’identità letteraria di Bellatin sia «un trompe l’oeil, una specie di alias, l’impostura che con l’andare del tempo ha messo a punto per arrivare al limite».
Nato in Messico all’inizio degli anni Sessanta da genitori peruviani di origine italiana, formatosi tra il Perù e Cuba negli anni Ottanta e poi rientrato a Città del Messico, dove vive tutt’ora, Bellatin è anche un raffinato artista concettuale, un performer che è partito dal proprio corpo servendosene come una installazione, per decostruire i confini tra arte e vita. Privo del braccio destro fin dalla nascita, ha scelto di ribaltare la sua menomazione facendone un elemento distintivo della propria costruzione di una peculiare identità mutante: a questo scopo esibisce la mancanza dell’arto, utilizzando un uncino per enfatizzare l’artificialità della protesi.

Divenuta, nel tempo, un prolungamento del sé, la protesi è stata eletta da Bellatin a ‘luogo’ di un evento artistico che ha sviluppato insieme all’artista e curatore Aldo Chaparro, il quale ha ideato una serie di braccia e di mani in plastica che svolgano allo stesso tempo più funzioni – nascondere un coltellino svizzero o contenere un I-pod – per «fare dell’accidente, del segno che il vuoto attorno al mio braccio destro crea, un fatto comunitario» – scrive Bellatin in Lo raro es ser un escritor raro (‘la cosa strana è essere uno scrittore strano’).

Il profilo Instagram dello scrittore-performer – un singolare racconto autofinzionale per immagini e didascalie – testimonia di questa installazione permanente fondata sulla falsificazione e sulla dissoluzione identitaria: Bellatin si ritrae vestito di lunghe tuniche nere che rimandano alla sua affiliazione al sufismo, in pose marcatamente innaturali che accentuano il carattere di rappresentazione artistica mentre sfumano il profilo biografico: il reale cede dunque il passo al travestimento e al simulacro.

Il principio iconoclasta che organizza e articola l’anti-scrittura di Bellatin conosce almeno due diverse declinazioni. Da una parte, la sua immaginazione paradossale, e perciò perturbante, affonda liberamente nell’assurdo, come testimonia Salone di bellezza, uno dei due romanzi dello scrittore peruviano-messicano tradotti in italiano (l’altro è Dame cinesi, ambedue passati piuttosto in sordina). In quel libro Bellatin trasformava il salone di bellezza del titolo in uno spazio di cura alternativo a quello ospedaliero, nel quale si offriva a malati terminali – purché maschi e queer – un posto dove consumare la propria agonia: pubblicato nel 1994, la piaga imprecisata cui scandalosamente il libro allude, nelle sue scarse cento pagine, è l’Aids.

Reiterati travestimenti
D’altra parte, la predilezione per le situazioni radicali convive in Mario Bellatin con un gusto ludico sottile, un’ironia appena percettibile, e il tutto concorre a quella tensione iconoclasta che investe la costituzione dell’’oggetto’ letteratura, le nozioni falsamente antitetiche di finzione e di realtà, i concetti stessi di ‘autore’ e di ‘identità’, ridefiniti – o meglio cancellati – nel gioco narrativo proposto in Shiki Nagaoka: un naso di finzione. L’esile trama coincide con la biografia di Shiki Nagaoka – scrittore di culto giapponese, afflitto da un naso di dimensioni smisurate – mentre l’asciuttezza di un linguaggio che tende al distacco e alla rarefazione ostenta una semplicità che il libro in realtà non possiede: qui trova infatti compimento quasi paradigmatico quel gioco con il limite e con l’impostura che attraversa l’intera opera di Bellatin, il cui travestimento è reiterato e vertiginoso: il protagonista viene presentato come l’ispiratore del racconto «Il naso», scritto da Akutagawa Rinosuke nel 1916 e citato in epigrafe; l’adozione della fotografia nella narrativa di Shiki quale strumento di manipolazione del reale viene attribuita al decisivo incontro con Junichiro Tanizaki; le riflessioni sull’insufficienza del linguaggio, che costituiscono il cuore del romanzo – passaggi illuminanti, dove si svela il procedimento dalla scrittura di Bellatin – vengono collegate, nell’ennesima torsione tra biografia fittizia e biografia reale, a quelle di Juan Rulfo e José María Arguedas, autori entrambi suicidi, i quali vissero il dramma dell’inadeguatezza delle parole di fronte alla realtà e – come Shiki – individuare nella fotografia un mezzo alternativo alla parola scritta.

Innesti fotografici
Quella di Bellatin, tuttavia, non è semplicemente una letteratura di secondo grado, fondata sull’uso del testo come palinsesto, alla maniera postmoderna; la sua è una performance continua, il risultato di un movimento perpetuo di contaminazione senza limiti tra le arti, che fa del testo un punto di partenza da cui scaturiscono molteplici possibilità proiettate oltre i confini della pagina. L’incorporazione di materiali fotografici nell’appendice del volume assolve una doppia funzione: mette in pratica le teorizzazioni sul rapporto tra parola e immagine sviluppate nel romanzo e crea una sorta di ‘letteratura aumentata’, che attraverso l’evocazione di un contesto inesistente potenzia il movimento ironico e demolitore innescato dalla scrittura.

Sovvertita la logica ordinaria, svuotata definitivamente l’affidabilità dei segni, destituiti i significati convenzionali, davanti al lettore si staglia un universo letterario unico, dai confini al tempo stesso precisi e incerti, che obbliga a ripensare, borgesianamente, la realtà e il suo orizzonte, le fisionomie identitarie e il radicamento che esse inducono.