«Se devo raccontarti di me, debutta bell, sarà meglio che tu mi dica di te, altrimenti come faccio a sapere con chi parlo. Prima di cominciare questa intervista dobbiamo conoscerci, stabilire una relazione tra noi». È Maria Nadotti che scrive, è il 1996, Nadotti e bell hooks si incontrano per la prima volta a New York, Greenwich Village, per le strade e i bar di un quartiere di artisti e intellettuali prevalentemente bianco, e al tavolo tondo della casa di hooks.
Ne esce un dialogo a due profondo, una conversazione che accoglie il pensiero di entrambe, lucido e meditato, domande che sono questioni aperte e riflessioni teorico-politiche su temi infuocati come sesso, razza, classe, identità appartenenze e contraddizioni, un pendolare tra storia personale e vita pubblica, tra politica, scrittura e femminismi. Ne nasce un libro, Scrivere al buio, il buio che appartiene a chi cerca e si cerca, a chi sta sul crinale con la capacità di stare al centro senza perdere di vista il margine.

hooks è una scrittrice e una accademica, lavora senza separare il pensiero teorico dalla vita affettiva, sessuale, materiale, senza dividere il sapere dall’esperienza. «Non sarei qui a scrivere questo saggio se mia madre, Rosa Bell, figlia di Sarah Oldhan, nipote di Bell Hooks, non avesse creato un focolare domestico come luogo di resistenza e lotta per la libertà all’interno delle società suprematiste bianche, nonostante le contraddizioni della povertà e del sessismo».

hooks è nera, cresce a Hopkinsville, Kentucky, dove vige un sistema di apartheid che una ferrovia ribadisce giorno e notte. Di giorno i neri attraversano i binari per andare a lavorare per i bianchi, la notte tornano da dove sono venuti, al loro posto, come se non fossero mai passati, non fossero mai stati visti. Il favore del buio, appunto. hooks è giovanissima quando comincia a guardare da vicino quella separazione, quella frattura economica politica, che sottopone a un confine, che sottomette a un regime, «negli Stati Uniti, in quegli anni, la vita di una donna di colore era molto diversa da quella di una bianca . La dimensione politica del luogo, la posizione da cui si scrive, fa situare», dirà. Come non partire da sé, dalla presenza viva della discriminazione razziale, dall’altrettanto potente figura di un padre autoritario e violento?

Fare i conti con questa duplice oppressione è l’inizio di un lavoro lucidissimo sull’incistato e irrisolto nodo razzismo sessismo, facce di una stessa cultura patriarcale, una politica dell’abuso, del potere inteso come dominio, del desiderio incastrato dentro logiche binarie, da vecchio regime sessuale. «Gran parte del mio lavoro nell’ambito della teoria femminista ha messo in rilievo quanto siano rilevanti i modi in cui status razziale e di classe determinano sino a che punto si possono affermare il dominio e il privilegio maschili e, ancor più, in che forma razzismo e sessismo sono sistemi interconnessi di dominio che si rafforzano e si sostengono a vicenda».
Il lavoro intellettuale raramente si sposa con l’attivismo, quasi avesse timore di esserne inquinato o sminuito, dice Nadotti, quando invece c’è più che mai bisogno di un pensiero critico situato e militante, di parole che non si svuotino e non vacillino al contatto con la realtà.

Questo è il lavoro intellettuale di hooks. Ci parla così da vicino, ce lo urla all’orecchio che non è possibile stare a piedi freddi sotto il tavolo se si vuole avere a che fare con quel che c’è, con quel che resta di reale, i corpi, le città, le case, le piazze. Come si fa allora? Come si procede con la testa concentrata in un pensiero e i piedi caldi a terra, a camminare, a esporsi, a esserci? Come si testimonia una lotta contro le forme più vecchie e quelle nuove di razzismo, di sessismo, come si elabora un pensiero critico? «Non è detto che teoria e pensiero critico vadano trasmessi solo attraverso la scrittura o nell’ambito dell’accademia. Pur lavorando all’interno di un’istituzione prevalentemente bianca, io resto intimamente e appassionatamente impegnata nei confronti della comunità nera. Poiché non ho spezzato i vincoli che mi legano alla disagiata e povera comunità nera, ho visto che la conoscenza, soprattutto quella che potenzia la nostra vita quotidiana e la nostra capacità di sopravvivere, può venire condivisa. Sono convinta, infatti, che l’immaginare, l’inventare, il teorizzare siano forme di attivismo: non è tollerabile che ci riconducano di continuo alla polarizzazione azione/pensiero».

Come si fa? Col desiderio di sfidare codici e tabù, con l’audacia di smontare pezzo a pezzo vecchie retoriche moribonde. Come quella che condensa tutto, tutto il peggio del mondo, in una unica formula politica, white supremacist capitalist patriarchy, il patriarcato suprematista capitalista bianco, che hooks elabora in uno dei suoi scritti. E ancora, avendo a cuore la complessità, hooks e Nadotti sembrano dirci, ammettendo la contraddizione di «non coincidere mai con una sola delle nostre parti», esercitando la resistenza politica, pensando a piccole rivoluzioni che favoriscano la trasformazione, e la facciano pensare possibile. La prima forma di lotta? Il linguaggio. «Il linguaggio è anche un luogo di lotta», sottolinea hooks. Se potessimo correggerci ogni volta che ci succede di usare un linguaggio coloniale, patriarcale, transessuofobo, razzista, sessista, già vorrebbe dire smontare la narrazione dominante, lavorare sulla visione che questa proietta, sulla cultura che ci attraversa dalla testa ai piedi, paralizzandoci da secoli.

«Ci vuole una visione rivoluzionaria di liberazione con una dimensione femminista», ci dice hooks. Riporto il suo pensiero per intero, mi sembra importante in questa stagione di femminismo fashion, spesso esibito come fosse un accessorio da portare in passerella: «Adesso le donne credono di essere femministe solo perché si oppongono a un uomo o perché lottano per avere pari diritti sul posto di lavoro, o in favore dell’aborto o contro le molestie sessuali. Mi capita spesso di vedere donne che in un certo senso non amano affatto le donne, che non hanno compiuto nessun processo di conversione, e che pure assumono l’identità di femministe. Non sono assolutamente interessata a un femminismo ridotto a stile di vita. Quel che mi interessa è una politica femminista, la definizione di programmi femministi per la nazione e lo stato, la trasformazione culturale. Credo sia importante tenere bene in mente che il femminismo è politica. Per scegliere la politica femminista bisogna aver fatto un’esperienza di conversione mentale, perché tutti noi siamo stati condizionati a essere sessisti. Chi ha una visione ampia e articolata del capitalismo sa bene che il problema è il sessismo, non gli uomini».

Elogio del margine di bell hooks, una raccolta di saggi curata e tradotta da Maria Nadotti, pubblicata da Feltrinelli nel 1998, esce ora per Tamu Edizioni insieme a Scrivere al buio, un libro-intervista che La Tartaruga pubblicò quello stesso anno.

Ecco, che una casa editrice si accorga di cosa può contribuire a raccontarci il presente e che per farlo decida di ripubblicare due libri usciti più di vent’anni fa, vuole dire almeno due cose: che quella casa editrice fa davvero il suo mestiere, vale a dire quello culturale e politico che qualunque casa editrice dovrebbe fare, e che le autrici di quei due libri fanno quello che le/gli intellettuali sarebbe bene facessero sempre: saper guardare la realtà con amore, immaginare non solo il futuro ma il passato, fare della scrittura una visione rivoluzionaria.