Il Gay Pride a Belgrado non s’ha da fare, nemmeno quest’anno. Il Primo Ministro Dačić ha motivato la decisione, presa forse quasi all’ultimo, solamente con questioni di ordine pubblico, ribadendo che non si tratta di una concessione agli hooligans e alle organizzazioni di destra le quali non si sono mostrate certo timide nel promettere violenze. La sera stessa dell’annuncio di Dačić diversi manifestanti protestano per il divieto del Pride davanti al Parlamento, radunandosi a colpi di messaggi su social networks. “Ovo je Prajd”, si legge sugli striscioni, ovvero: questo è il Pride.

Il balletto continua: L’Europa si indigna e Michael Davenport, a capo della delegazione europea in Serbia, sottolinea la conditio sine qua non del rispetto dei diritti civili per il cammino del Paese verso l’Unione Europea. Infine il Presidente Nikolić, già con un anno di anticipo, conferma l’organizzazione del Gay Pride 2014. Un giro di valzer tra la pancia del Paese e le pressioni internazionali.

L’edizione del 2013, prevista per il 28 Settembre, è stata annullata per la terza volta consecutiva, dopo un iter tortuoso che ha visto scontri feroci nel 2001, un rifiuto degli organizzatori della parata nel manifestare, su richiesta, fuori dal centro (2009) e il blindatissimo corteo del 2010.

A questo punto ci si chiede se un evento come il Gay Pride possa essere l’unica soluzione o l’unico segnale per un cambiamento nella società serba. Al riguardo non ha dubbi Goran Miletić, direttore del programma per i Balcani Occidentali dell’organizzazione indipendente Civil Rights Defenders: “Certamente il Gay Pride non è l’unica soluzione, ma è una occasione che ha la politica e questo governo per mostrarsi serio, più forte dei ricatti degli hooligans, e attento ai diritti umani e civili della sua gente. Noi abbiamo bisogno del Pride perché siamo cittadini di questo Paese e vogliamo esprimere liberamente il diritto di manifestare e di protestare contro la violenza e la discriminazione”. Associazioni e organizzazioni supportano la causa, creano assistenza legale, campagne di sensibilizzazione, ma gli attivisti coinvolti sono ancora pochi, rispetto ai movimenti di altri paesi, e soprattutto è limitata la voglia di esporsi pubblicamente. Eppure è il tessuto associativo il contesto fertile  e necessario per esprimere e concretizzare il dibattito se le istituzioni restano sorde.

Per Jelisaveta Blagojević, esperta di gender studies e professoressa alla Facoltà di Media e Comunicazione di Belgrado, in ultima analisi sembra che “sia solo la comunità LGBT l’unica a difendere i diritti civili in Serbia, oggi, e questo è francamente grottesco. A volte siamo omofobici a volte no, dipende. Anche questo è grottesco. Si, siamo in una società omofobica, machista, e proprio per questo dobbiamo marcare lo spazio politico, dare visibilità ad alcune questioni, confrontarsi, certo, non basta scendere in piazza, ma non possiamo prescindere da questo”.

E l’Unione Europea può assumere sempre il ruolo di genitore severo? Sarà possibile per la Serbia creare autonomamente una propria via per democratizzare alcuni processi?

Sfortunatamente nel campo dei diritti umani la Serbia, non farà nulla senza le pressioni dell’ Unione Europea”, sostiene Miletić, “e credo che la situazione resti tale anche per i prossimi anni. Tuttavia non tutti i Paesi UE hanno avuto lo stesso approccio e puntuale è arrivata la proibizione del Pride”.  “Tutto questo è importante per noi come comunità, ci sono lesbiche anche prima e al di là della UE” fa eco la Blagojević.

La visione di “genere” e sulla sessualità, la loro discussione nell’opinione pubblica, gioca un ruolo significativo, se non quello di un vero campo da gioco, nella (ri)costruzione della identità nazionale in relazione all’accesso nell’Unione Europea. L’eterosessualità viene messa al centro della identità nazionale, fondamentale per la sua stessa sopravvivenza, al contempo anche le influenze transnazionali e globali contribuiscono a porre al centro della piazza politica altre istanze.

Non sarà l’ingresso specifico della Serbia in Europa a garantire in automatico l’inclusione concreta ed effettiva delle cosiddette “minoranze sessuali”, ma è indubbio che se c’è da rintracciare un ruolo benefico nelle pressioni politiche esterne, questo è da individuare nel rendere pubbliche e visibili tali questioni. L’Europa con le sue aspettative e i suoi modelli, con cui a sua volta  marca i suoi confini definendosi implicitamente e orgogliosamente democratica e diversa rispetto agli altri, non può comunque essere additata semplicemente e superficialmente in blocco come una forza liberatrice.

L’occhio e la prospettiva occidentale continuano a percepire la Serbia come un Paese in perenne transizione, quale forse effettivamente è. Ma tra due fuochi quali sono, in fondo, fuori onda, i suoi pensieri sul cuscino? La  Serbia, oggi, che Paese vuole diventare?