L’importanza del risultato referendario irlandese ha implicazioni notevoli per la Gran Bretagna, per anni meta dell’outsourcing forzato dell’aborto che la legislazione irlandese espressa nell’ottavo emendamento imponeva alle proprie cittadine. Quasi tutti i giornali e i principali mezzi di informazione ne hanno riportato con malcelata soddisfazione l’abrogazione, anche se la maggior parte dei commenti si è mantenuta su una sottile linea di imparzialità per tema di influenzare l’opinione pubblica di un Paese nella cui storia, recente e meno recente, il Regno Unito ha giocato un ruolo, fuor di metafora, a dir poco invadente. Nelle pagine dei principali quotidiani, a commenti che salutavano la prevista vittoria come il tardivo eppur sacrosanto allineamento a posizioni più civili del resto d’Europa erano equanimemente abbinati interventi che sostenevano la causa del No.

Le implicazioni dirette per la Gran Bretagna riguardano soprattutto l’Irlanda del Nord: che ora resta da sola a difendere la grettezza di una dimensione biopolitica imposta alla donna ferma al peggior oscurantismo degli anni Cinquanta. In un tweet, la ministra per lo Sviluppo internazionale Penny Mordaunt ha espresso una forte posizione di plauso per gli exit poll trionfali, sottolineando come «la storica, grande giornata dell’Irlanda» fosse «una di speranza per l’Irlanda del Nord». Gli ha fatto eco per i laburisti Owen Smith, (candidato dello sventurato coup moderato ai danni di Corbyn) che nella sua vece di ex shadow secretary per l’Irlanda del Nord ha salutato come meravigliose le notizie del vantaggio del Sì, «Un messaggio per l’Irlanda del Nord» le ha definite. Per poi aggiungere «Abbiamo bisogno di un cambiamento in tutta l’isola d’Irlanda».

Dunque ancora una volta la frazione settentrionale dell’Irlanda, altrimenti nota come Ulster, si ritrova schiacciata fra i due storici campi di tensione divergenti, quello della Gran Bretagna impelagata nella palude Brexit e di un Irlanda repubblicana che sempre di più, anche attraverso gli ultimi due storici referendum (compreso quello del 2015 sui matrimoni omosex), vuole sentirsi parte di un consesso europeo non solo legale ed economico, ma civile.

In questo senso il pronunciamento liberale irlandese sull’aborto diventa un ulteriore elemento di polarizzazione dell’opinione nel Nord, su cui incombono due rischi opposti, quello di introduzione di confini materiali con tanto di dazi tra sé e l’Irlanda (temuto da tutti come fallimento degli accordi di pace con l’Ira) come quello di una riunificazione tour court con l’Irlanda.

Un Paese, soprattutto, dove l’Abortion act britannico del ’67 non è mai stato esteso e dove le donne vengono incriminate per essersi/aver procurato pillole abortive. E dove da oggi, la riduzione in scala di un volo in Gran Bretagna per terminare una gravidanza in un viaggio in auto in Irlanda non è che la caricatura beffarda di una conquista.

Del resto qui la questione non è di repubblicanesimo contro orangismo nazionalisticamente intesi ma, come in fondo la Brexit stessa, una faglia interpartitica perfettamente trasversale. Come ha anche ampiamente dimostrato la cautela socialmente conservatrice del Sinn Féin su questo referendum.