Belén è un nome di finzione. È stato scelto per proteggere la vera identità di una donna argentina di 27 anni.

Il suo caso è un simbolo e ha mobilitato migliaia di manifestanti: Belén nel 2014 è stata condannata a 8 anni di carcere per un aborto spontaneo.
Il 21 marzo del 2014 la giovane è arrivata al pronto soccorso dell’ospedale di Tucumán, una città del nord dell’Argentina. Aveva fortissimi dolori e un’emorragia vaginale.

Mentre le prestavano soccorso i medici dell’ospedale l’hanno denunciata sostenendo che si fosse procurata un aborto clandestino. Belén è stata trasferita direttamente dall’ospedale al carcere ed è stata condannata a 8 anni per omicidio aggravato «dal vincolo e dalla premeditazione».

Mentre si trovava in prigione Belén è stata vittima di molestie, persecuzione e minacce perpetrate dagli abitanti di Tucumán e da alcuni media locali. L’avvocata femminista Soledad Deza ha deciso di difendere la giovane dimostrando che erano stati commessi gravissimi errori durante il processo.
Il caso di Belén nel frattempo era diventato noto in tutto il Paese: sono state decine le manifestazioni di protesta per richiedere la liberazione della donna.

Durante le marce erano presenti ovunque le scritte «Somos Belén – siamo Belén». Dopo tre anni di carcere e un’instancabile lavoro dell’avvocata Deza e delle associazioni femministe finalmente il caso è stato portato all’attenzione della Corte Suprema di giustizia di Tucumán che, nel 2017, ha assolto Belén.

«Chi mi darà indietro i tre anni in cui sono stata incarcerata? – ha dichiarato a Pagina12 la giovane quando è stata scarcerata – Sono convinta però che la sentenza della Corte Suprema servirà a molte altre donne per rendersi conto che abbiamo dei diritti. Non devono avere paura di andare in ospedale perché non tutti i medici sono come quelli che mi hanno denunciato. Quello che mi è successo poteva capitare a chiunque». Mentre si trovava in carcere Belén è stata definita «assassina» dalla stampa, è stata accusata di aver ucciso il figlio e quando è stata scarcerata ha avuto molta difficoltà nel trovare un nuovo lavoro, anche perché nella sua fedina penale risulta una condanna per omicidio aggravato.

«All’inizio, appena sono uscita dal carcere, è stata dura. Ero molto arrabbiata per quello che mi è successo e gridavo da sola in casa mia. Avevo degli attacchi d’ira. Di notte cercavo di dormire ma mi venivano subito in mente i ricordi di quando sono entrata nel carcere. È stato orribile». Nel 2019, sempre in provincia di Tucumán, una bambina di 11 anni, violentata dal compagno della nonna, è stata sottoposta a un parto cesareo d’urgenza dopo che la richiesta di aborto presentata da lei e dalla madre era stata intenzionalmente ritardata.

Nel dicembre scorso un messaggio audio di Belén che racconta la sua storia è stato ascoltato dai senatori argentini durante una riunione per discutere del progetto di legge sull’aborto. Inoltre il presidente Alberto Fernández ha partecipato alla presentazione del libro che racconta la storia della giovane. «Durante l’evento il presidente mi ha abbracciato e chiesto perdono – ha raccontato – Stavo tremando. Mi sono sentita protetta da lui. Mi ha promesso che avrebbe inviato il progetto di legge per la legalizzazione dell’aborto e l’ha fatto». Il caso di Belén non è isolato. Come rivela un’indagine del Cels – Centro de estudios legales y sociales – dal 2012 a oggi si sono registrati altri 73 casi di donne condannate per aborti o altri interventi ostetrici in Argentina.

Come sottolineato dagli studiosi che hanno condotto la ricerca questa criminalizzazione colpisce soprattutto donne appartenenti a settori sociali vulnerabili: non hanno lavori ben remunerati e hanno un basso livello di istruzione. Come si legge nella ricerca del Cels: «Si tratta di donne che necessitano della cura del nostro Stato e a cui vanno garantiti i loro diritti. Senza dubbio, la politica penale che sostiene la persecuzione dell’aborto si è orientata, e continua a orientarsi, verso le donne povere».

Come nel caso di Belén, queste donne sono state vittime di persecuzioni e maltrattamenti: «La maggior parte di queste giovani ha meno di 30 anni. Molti casi sono stati denunciati dal personale medico. Queste donne sono state maltrattate durante il loro ricovero e non hanno ottenuto un giusto processo. La maggior parte di loro ha subito perquisizioni illegali, interrogatori forzati e sono state obbligate a dichiarare contro se stesse».