Armonia prestabilita: così – si potrebbe dire, con necessaria semplificazione – Leibniz definiva quell’ordine in grado di spiegare la relazione tra soggetto pensante e mondo sensibile.
Ora, proviamo a compiere l’esercizio di spostarci idealmente nel tempo, dall’epoca del grande filosofo tedesco a oggi. Poi, di limitare pragmaticamente il campo: dalla filosofia al cinema. Infine, di ipotizzare teoricamente tale nozione non in modo prescrittivo, ma più come una suggestione, una linea guida quasi poetica. Ecco, a partire da un intendimento del genere si potrebbe pensare di introdurre il senso di un cinema come quello di Béla Tarr, quantomeno per come uno studioso rigoroso come Marco Grosoli lo analizza nel suo bel libro, Armonie contro il giorno. Il cinema di Béla Tarr (Bébert Edizioni, Bologna; 15 euro), prima monografia italiana dedicata al grande cineasta ungherese e che tra l’altro presenta una appendice di interviste al regista e a due suoi collaboratori, a cura di Michael Guarneri.
Oltre a suggerirmi il rimando a Leibniz, qui la lettura di Grosoli mi suggerisce come il caso Tarr sembri conferire alla nozione di armonia prestabilita sfumature utopiche, fuori e dentro l’immagine. Partiamo dal fuori, da Tarr oggi.
Il libro ci introduce subito alla situazione odierna, qualcosa che forse molti già in parte sanno. E cioè che Tarr non fa più film da Il cavallo di Torino (2011), e non fa più film per scelta volontaria, radicale, perché ha forse detto e dato tutto, dedicandosi invece – a partire dal 2012 – alla sua scuola di cinema a Sarajevo. Cosa dire in merito? Da una parte, che forse con lui si ripete una esperienza che per esempio si è vista altrove, con uomini di genio come un Rimbaud, gente per cui solo il silenzio espressivo – come cambiamento e non come morte – poteva seguire l’apice toccato, conferirgli quel senso da sempre ricercato. Dall’altra – e qui arriviamo al punto – l’impressione è che grazie a tale gesto, Tarr sembra forse aver realizzato l’utopia di un legame tra estetica e etica che riesce a pochi, ieri come oggi, una sorta di propria armonia prestabilita e in questo, quindi, aver spostato il senso dell’utopia da obiettivo tendenzialmente ideale a condizione, per così dire, intrinsecamente reale – come una continuità nella discontinuità: «È forse legittimo chiedersi a chi mai possa venire in mente, oggi, un’idea del genere, mossa da un così splendido ottimismo pedagogico, di un illuminismo umanista quasi utopico ed anacronistico. Per non parlare poi della forza di volontà per metterla in pratica. La risposta, in un mondo meno ottuso di questo, dovrebbe risultare ovvia: a qualcuno che comunemente è noto per il suo pessimismo, per l’oscurità della sua visione, per la sua diffidenza verso le utopie, per aver dipinto a più riprese una umanità prossima alla fine.»
Nell’analisi, il libro segue una struttura classica, focalizzando l’attenzione sulla produzione di Tarr dall’inizio alla fine, con due particolari variazioni dalla norma. La prima è la scelta di cominciare a partire da un lavoro della maturità, un corto in grado di «racchiudere in maniera più compiutamente ed efficacemente sintetica tutto il suo cinema»: Prologo, parte di un lungometraggio collettivo dal titolo Visions of Europe (2004) – un corto stupendo, visibile facilmente in rete per chi non l’avesse mai visto. La seconda variazione riguarda l’organizzazione di certi capitoli, dal momento che il terzo e il quarto raggruppano lo studio di più film (sono quelli relativi alla prima parte della sua produzione).
Nello specifico, la lettura che Grosoli compie del cinema di Tarr offre una serie di spunti importanti – en passant: il capitolo dedicato al monumentale Satantango (1994) è un gioiellino – ma per necessità di sintesi non si può che focalizzare l’attenzione su solo uno di questi spunti, forse il più indicativo in generale: il tema dell’armonia come appunto indicato nel titolo, e in una sua accezione filosofica, come sistema di relazioni tra n. parti. Ora, di riflesso, questo rimanderebbe a quanto detto, alla suggestione dell’armonia prestabilita. Cosa lega tutto? Quello che la monografia sembra far trasparire è come, in ogni film, l’orchestrazione tra messa in scena e stile sembri rappresentare una sorta di rovescio del migliore dei mondi possibili, cioè l’emersione del fondo/basso continuo di una rappresentazione della vita a partire dalla fine, da un «tempo della fine»: una rappresentazione data da una trama coesa di estremi, materialismo e metafisica, dove non si sente più il bisogno «di uno sguardo verso il futuro, ma di uno sguardo che sappia guardare in faccia le inconsistenze del presente». L’utopia – qui – è da considerarsi nell’etimo, la suggestione stessa di una armonia prestabilita come una sorta di forma chimerica, tanto orizzonte inarrivabile quanto destino cieco, inespugnabile. Pessimismo cosmico? Al riguardo, Grosoli argomenta e ci dice di no: nel cinema di Tarr la reazione sembra possibile, ma passerebbe da «un semplice atto di pura negatività attraverso cui, qui ed ora, prendiamo le distanze rispetto alle illusioni dell’esistente». In proposito, come eco e chiusa, non posso non pensare ai versi di un grande poeta: «Poetry supporter, if you’re here to find / How poems can grow from (beat you to it!) SHIT / find the beef, the beer, the bread, then look behind.»