L’accoppiamento più inconsueto ma non necessariamente giudizioso del Festival di Salisburgo è quello composto dal Castello di Barbablù di Béla Bartók e dall’opera-oratorio De Temporum Fine Comoedia di Carl Orff. Affidato al greco-russo Teodor Currentzis alla guida della Gustav Mahler Jugendorchester e del suo coro musicAeterna e con la regia, scene, costumi e luci di Romeo Castellucci, il dittico, in scena dal 22 luglio al 20 agosto alla Felsenreitschule riserva momenti di forte intensità, pur evidenziando una sensibile sproporzione qualitativa tra i due lavori. Da un lato infatti Currentzis e Castellucci convergono su una lettura dolente e intimista del capolavoro di Bartók, reso dall’orchestra alternando poche, veementi esplosioni a una calibrata tavolozza timbrica di pause e pianissimi inattesi. Lo spettacolo bandisce ogni tentazione estetizzante e racchiude il tragitto della coppia verso la notte in un inaccessibile, scarno corredo di simboli accessi da fiamme vere. Niente porte, ma soglie ardenti solcate da Judith, Austrine Stundyte, che rinnova l’energia ferina esibita nell’Elektra straussiana delle scorse stagioni. Gronda invece acqua dal corpo il duca Barbablù disperato e feroce del basso Mika Kares.

LA COPPIA riappare brevemente, ormai pacificata, nella sezione finale della cantata di Orff. Ultimo suo esito teatrale, creato nel 1973 proprio a Salisburgo, De Temporum Fine Comoedia rielabora in chiave escatologica temi, idee musicali e strutture drammaturgiche ricorrenti nella produzione del compositore: l’idea della riconciliazione del male nell’assoluto divino si sviluppa in tre sezioni in cui le sibille, gli anacoreti e infine lo stesso Lucifero intrecciano profezie e una finale richiesta di perdono in latino, greco antico e tedesco. Nei testi si fondono Goethe, l’Apocalisse di Giovanni, inni misterici, Origene, l’ordinario della Messa, incisi neoplatonici e dello stesso Orff. Potenza del tema e mole di riferimenti hanno stimolato in Castellucci e nella drammaturga Piersandra Di Matteo una folla di formidabili fantasmagorie ispirate agli affreschi medievali, all’horror cinematografico, a Goya, a Fellini, fino alle pieghe pittoriche del barocco più notturno. Un profluvio inventivo che non nasconde una monotona meccanicità che, dopo l’avvio fulminante dei melismi sopranili, tende a insinuarsi nella partitura di Orff, che pure dispone di una ricca strumentazione, fiati, ottoni, violoncelli, viole e una sterminata sezione di percussioni. La direzione animata di Currentzis e la bravura degli interpreti non argina il senso di saturazione che pervade l’opera, articolata sul ripetersi di ossessivi incisi ritmici, clangori di fanfare e percussivi unisoni corali. Anche l’evocazione conclusiva del giudizio universale di Signorelli a Orvieto perde di incisività al confronto con la concentrazione drammatica ottenuta da Castellucci lo scorso luglio al Festival di Aix nella resa scenica della Seconda Sinfonia di Mahler.