Il giudice Akiki ha confermato giovedì l’arresto dei 16 ufficiali indagati per il disastro di martedì. La notizia ha ulteriormente infiammato le decine di persone che si sono dirette la sera al parlamento di Beirut con l’intenzione di occuparlo e che hanno messo a ferro e fuoco la zona di Downtown.

Forze antisommossa schierate. Tafferugli, lanci di pietre da parte dei manifestanti. «Dal tetto degli edifici intorno – racconta Marwan Hamdan che ha preso parte agli scontri – la Guardia del parlamento ci tirava addosso pietre, alcune grandi come la mia testa. È allora che la polizia ha lanciato i primi lacrimogeni».

Arriva anche l’esercito. «Mi ha stupito che l’esercito a differenza degli altri due corpi non fosse violento con noi, come succedeva prima, nonostante la tensione fosse altissima. Si limitavano a dirci di stare indietro». I social propagano la notizia, diffondono video live e il numero dei manifestanti raddoppia, triplica.

«A QUEL PUNTO ci sono stati altri due lanci di lacrimogeni e gli scontri sono andati avanti per qualche ora. “Siamo qui per morire!”, gridava qualcuno tra la folla assieme agli slogan ormai famosi della thaura (rivolta) dei mesi scorsi. Finora non avevo ancora sentito dire una cosa del genere. È diverso da prima».

Abed – non vuole dirci il cognome – è uno di quelli accorsi in seconda battuta. «Quando sono arrivato il punto da dove si accede al parlamento era in fiamme. Durante la thaura era già stato murato con blocchi di cemento. I roghi erano là davanti – racconta – Ci hanno dispersi questa volta, eravamo poche centinaia. Torneremo per invadere il parlamento!».

NON CI SONO STATI ARRESTI. La polizia è stata cauta. Molto. Durante le proteste passate arrestava per molto meno. Oggi è annunciata alle 16 una grande manifestazione a Beirut. Abed e Marwan sono sicuri che al calare della notte ci saranno scontri violenti.

Ieri il presidente Aoun ha spiegato ai giornalisti i tre livelli su cui si muoverà l’inchiesta sullo scoppio del capannone 12. «Per prima cosa, come il materiale esplosivo sia entrato e sia stato depositato. Secondo, se l’esplosione sia il risultato di negligenza o di un incidente. In ultimo, la possibilità di un intervento esterno: una bomba, un missile o altro».

E alla domanda se sia opportuna o meno l’investigazione internazionale chiesta da molta parte dei libanesi – l’esplosione ha spazzato via gli ultimi residui, nel caso ce ne fossero ancora, di fiducia in qualsiasi rappresentazione dello Stato – ha risposto: «L’obiettivo di tale investigazione sarebbe la diluizione della verità». Come se la verità fosse la conditio sine qua non della politica libanese.

SULL’EMITTENTE al-Manar del partito, il leader di Hezbollah respinge le voci di qualsiasi coinvolgimento attivo e non nell’esplosione: «Le accuse che Hezbollah controlli il porto di Beirut sono tutte falsità. Ci sono anche uomini nostri tra i morti. Al porto non abbiamo niente: né un deposito di armi, né missili, fucili, munizioni, né nitrato di ammonio. Gli uomini e gli istituti di Hezbollah sono a totale disposizione della giustizia».

Si difende così dalle accuse di questi giorni di un loro deposito di armi, munizioni, a fianco del capannone che conteneva le 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio e che avrebbe innescato lo scoppio. Il gruppo ha anche negato di aver inviato sul monte Hermon il drone che l’esercito israeliano ha detto di aver abbattuto la notte tra giovedì e ieri.

IL PARTITO DI DIO è forse l’attore che si trova a giocare la partita politica più difficile. Se all’interno è accusato di tenere in scacco il paese, di impedire l’arrivo degli aiuti del Fondo monetario – almeno fino a prima di martedì –, se durante quest’anno di proteste e crisi ha perso consenso anche nelle sue roccaforti, da fuori è sempre più isolato: Caesar Act (sanzioni a chi fa affari con la Siria di Assad), frizioni con l’ambasciatrice americana in Libano Shea, la presa di posizione netta della Germania sulla sua natura terroristica, aumento della pressione da parte di Israele. E ora gli ammonimenti di Macron.

I numeri sono impressionanti. Ieri il nuovo record assoluto di nuovi casi di Covid, 279. Il Libano è tecnicamente in lockdown. Gli ospedali, quelli ancora aperti, sono al collasso. 5mila feriti, 157 morti, decine di dispersi nell’esplosione.

LO STRATEGICO LIBANO, già piegato dalla crisi economica, sociale, alimentare, sanitaria, sempre scenario di relazioni, nodi e accordi politici e finanziari, equilibri che vanno ben oltre i limiti nazionali, non poteva già attendere un attimo in più.

Ma quello che è successo martedì è andato oltre ogni immaginazione. Una disperazione diversa si avverte tra la gente, lo ricordava Marwan. Una rabbia mai vista prima che non annuncia niente di buono.