Negli ultimi 72 anni i campi profughi palestinesi in Libano sono stati teatro di lotte, guerre, assedi, massacri, ma questa è forse la prima volta che nei vicoli di questi insediamenti angusti e sovraffollati si aggira la paura della fame.

«Qui a Shatila non avevo mai visto tanto spavento sui volti delle persone, e non è il virus a far paura, ma la crisi economica, la povertà in cui stiamo sprofondando già da tempo e che il Covid-19 ha accelerato», dice Abu Mujahed del Children and Youth Center (Cyc).

Il campo di Shatila a Beirut è quello messo peggio in termini di condizioni igienico sanitarie, spazi (circa 12mila abitanti in neanche due chilometri quadrati), povertà, tra i 12 campi rifugiati del Libano, in cui vive circa il 45 per cento dei palestinesi (470mila registrati di cui 180mila residenti nel paese). «Il paese è nel caos e per i palestinesi, come per i rifugiati siriani, i migranti e i libanesi poveri, la paura ora è patire la fame», conclude Abu Mujahed.

Il Libano è in bancarotta, la lira libanese è deprezzata (scambiata a oltre 3mila lire con il dollaro) e la crisi sanitaria causata dal Covid-19, con il conseguente lockdown più o meno rigido da metà marzo, ha esarcebato la crisi economica. Ai palestinesi che non sono considerati cittadini in Libano, che sono esclusi da molte professioni e cui sono negati molti diritti, la pandemia sta costando cara.

Per molti di loro la sopravvivenza dipende da lavori saltuari e con il blocco imposto per contrastare la diffusione del virus hanno perso le proprie fonti di sostentamento. «Oggi è difficile anche trovare il latte nei negozi e i prezzi sono aumentati tantissimo – racconta Mohammed del campo di Burj el Shemali (Tiro) – Siamo bloccati nel campo, è rimasta aperta soltanto una via di accesso ed è stato imposto il coprifuoco dalle 19 alle 5. Ogni campo ha adottato le sue misure, a El Buss e Rashidieh sono più liberi di muoversi, altrove si segue il coprifuoco deciso dal governo libanese, dalle 21 alle 5».

«Il campo è sempre stato un mondo chiuso – continua – I nostri movimenti sono sempre stati limitati, ma adesso ci sentiamo sotto assedio. È lo stesso campo che ci fa pressione».

Nei campi la vita prosegue come al solito, raccontano Lina da Ein el Hilweh (Sidone) e Imad da Burj el Shemali. La gente è per strada, non indossa sempre mascherine, i negozi sono aperti, si fanno partite di calcetto e non tutti prendono sul serio la minaccia del virus.

In effetti, il Covid-19 ha sinora risparmiato i campi palestinesi. È stato registrato il primo caso un mese fa a Wavel, nella valle della Bekaa: una persona è ricoverata a Beirut e quattro suoi famigliari sono in isolamento.

In Libano, però, giovedì scorso c’è stato un picco dei contagi (+63) arrivati ieri a 1.140 (26 morti) e il governo ha reintrodotto le restrizioni ed esteso la quarantena, per la quinta volta, fino al 7 giugno.

«A Burj El Barajneh (Beirut) al momento la situazione è sotto controllo – spiega Ahmad Einein – ma se avessimo casi, penso che rischieremmo il panico e mi aspetto anche una chiusura del campo, come a Wavel. Punteranno il dito contro di noi, diventeremo bersaglio di discriminazione».

È anche il timore di Mahmoud al Jooma, dell’associazione palestinese Beit Atfal Assumoud, che però teme ancora di più la povertà che si sta diffondendo tra i palestinesi: «Se il Libano resta in queste condizioni non ci sarà un futuro. Noi distribuiamo viveri, informiamo, ma non basta e abbiamo bisogno di azioni più incisive da parte delle Nazioni unite e dell’Unrwa».

L’agenzia dell’Onu che si occupa dell’assistenza ai rifugiati palestinesi da qualche giorno ha iniziato la distribuzione di un sostegno economico, 112mila lire libanesi, ma le immagini degli assembramenti e le notizie di disservizi hanno destato indignazione. Ed è comunque poca cosa se non si lavora, dicono i palestinesi.

Sin dall’inizio dell’emergenza Covid-19, l’Unrwa è stata oggetto di critiche, insieme con l’Olp, le altre fazioni palestinesi, l’Autorità palestinese, l’Europa e le altre organizzazioni internazionali. In una nota, il direttore generale di Assumoud, Kassem Aina, parla di «carenze» e «ritardi» nella risposta all’emergenza.

Le casse dell’Unrwa, però, sono sempre più vuote da quando, nel 2018, l’amministrazione Trump, il suo maggiore finanziatore, ha tagliato gli aiuti. Per far fronte alla crisi Covid-19, l’agenzia ha chiesto 93,4 milioni di dollari che basterebbero fino a luglio, ma i palestinesi temono che la crisi del corona virus cambi le priorità dei donatori.