Nel 1970, il bicentenario della nascita di Beethoven fu celebrato con quella solennità che viene riconosciuta a un grande protagonista della cultura occidentale. L’elenco delle manifestazioni musicali, delle iniziative editoriali, degli eventi celebrativi di quell’anno, a cominciare dalla monumentale Beethoven Edition della Deutsche Grammophon sarebbe probabilmente più lungo del catalogo di Leporello. Non è da escludere che la nausea del protagonista di Arancia meccanica, il film di Stanley Kubrik del 1971, davanti alle immagini di parate naziste accompagnate dalla marcia turca della Nona Sinfonia stia per una risposta metaforica alla scorpacciata di retorica beethoveniana offerta dal bicentenario. Era un altro mondo: l’enfasi tributata a Beethoven nella Germania di allora, divisa in due Stati, aveva una valenza politica e culturale. Se nella Ddr l’obiettivo era sgretolare definitivamente il Beethovenbild nazista, trasformando l’umanesimo schilleriano del compositore in una sorta di profezia marxista, in Occidente la priorità era fare i conti, attraverso Beethoven, con il proprio passato culturale, dopo la catastrofe della guerra e le fumanti rovine della Romantik. Da questo punto di vista, l’omaggio più autentico, nonostante il carattere apparentemente dissacrante, fu realizzato dal film (da non confondere con la composizione omonima) Ludwig van del compositore argentino di origini ebraiche e tedesche Mauricio Kagel, che immaginava Beethoven redivivo a Bonn, sbarcato dal treno e a passeggio in mezzo agli sbigottiti passanti.

A distanza di cinquant’anni, invece, il panorama offerto dal nuovo anniversario è desolante, e il Covid non c’entra, com’è ovvio: ben prima che il virus si manifestasse, infatti, tutto era già stato programmato. In febbraio, prima della chiusura delle frontiere, si è fatto in tempo a tenere un convegno internazionale a Bonn, ma per il resto il mondo della cultura ha prodotto poco o nulla. In campo editoriale, non è uscito alcun libro rilevante su Beethoven, a parte qualche intelligente rilettura divulgativa, come l’atteso A Life in Nine Pieces di Laura Turnbridge in uscita a ottobre. Lo scenario italiano sarebbe addirittura avvilente, se non fosse in minima parte riscattato dalla ristampa, a quasi vent’anni dalla pubblicazione, di un libro originale e interessante di Artemio Focher dal titolo icastico come lo stile filologico dell’autore: Ludwig van Beethoven. 26-29 marzo 1827 (Libreria Musicale Italiana, pp. 206, €30,00). Le date sono quelle della morte e dei funerali di Beethoven, quattro giorni raccontati sviscerando minuziosamente tutti i dettagli del trapasso e della definitiva separazione dell’artista dal suo tempo. Ne esce un ritratto vivido del mondo viennese, e delle miserie umane da cui venne circondato Beethoven, ma anche un profilo netto del nascente mito romantico dell’eroe solitario e incompreso.

Spulciando con acume da detective cronache, lettere, diari e giornali dell’epoca, Focher cerca di mettere ordine tra le notizie contraddittorie, a cominciare da chi fosse effettivamente presente al capezzale di Beethoven al momento dell’ultimo respiro. Dall’esame delle fonti emergono tanti lati interessanti: l’asfissiante controllo della censura, che pretese di modificare fino all’ultimo l’orazione funebre scritta da Franz Grillparzer; le polemiche suscitate dai nazionalisti austriaci per le 100 sterline inviate a Beethoven dalla Società filarmonica di Londra con cui erano state pagate le esequie; il tentativo di corrompere il becchino per trafugare il cranio di Beethoven, com’era accaduto in precedenza per Haydn; il conto salato dei medici per le cure prestate al malato; la triste schiera di rigattieri radunata nell’ultimo appartamento di Beethoven, per spartirsi gli oggetti del maestro messi all’asta. Celebrato degnamente, nel mondo editoriale, solo da un vecchio libro e per altro verso da un profluvio di concerti di routine, privi di nuove prospettive interpretative, l’anniversario che sta per concludersi induce a rimettere a fuoco il posto di Beethoven nel nostro mondo di oggi.