Nell’odierno dibattito sul rapporto tra arte e capitalismo, il tema dell’artista come lavoratore ha rimpiazzato quello dell’arte come merce. Sul punto insistono due visioni politiche parallele benché opposte: una che auspica la fine del mercato regolato dalle leggi della domanda e dell’offerta, e un’altra che dal mercato reclama maggior riconoscimento. Ma in generale, osserva l’artista e ricercatore David Beech nel suo saggio Art and Postcapitalism Aesthetic, Labour, Automation and Value Production (Pluto Press, pp. 160, £ 19.99), «manca una chiara comprensione della differenza tra resistere al sistema sociale esistente e superarlo».
Come da titolo, Beech si propone di esaminare l’intreccio tra arte, lavoro, automazione e valore di produzione nell’ottica del «postcapitalismo», ossia di una vasta ed eterogenea costellazione di teorie su come uscire dal capitalismo. Beech spiega che il postcapitalismo, nella sua evoluzione, si è gradualmente e in varia misura allontanato dal marxismo e dalla tradizione socialista della lotta di classe; in altre parole, è passato da un progetto di riscatto mediante il lavoro a uno di affrancamento dal lavoro. Per illustrarlo, l’autore attinge a numerose fonti, da John Ruskin e William Morris, fino a John Holloway, Silvia Federici, Michael Hardt e Antonio Negri, ecc. Si scopre così che l’arte ha un ruolo marginale nel postcapitalismo contemporaneo, perché uno dei grandi cambi di prospettiva è che nel XXI secolo l’artista non rappresenta più il campione del lavoro non alienato, ma incarna il prototipo del lavoratore post-fordista: un precario superflessibile, a tempo pieno, che non distingue tra lavoro e vita.
Nel tentativo di dare struttura al suo ragionamento, Beech abbozza un quadro storico. Nel Rinascimento una privilegiata minoranza di artisti ha introiettato il disprezzo della committenza aristocratica nei confronti del lavoro mercenario, identificato in quello manuale e mercantile. Da allora, l’opera d’arte è considerata frutto del «genio», una mente eletta che coltiva aspirazioni intellettuali sempre più innovative rispetto alle consuetudini del mestiere, nonché estranee alle implicazioni commerciali. Ciò avrebbe reso l’arte «antagonista» e sancito la degradazione delle pratiche artigianali a un ruolo subalterno. Tuttavia, continuando a essere necessarie competenze e operazioni tecniche per realizzare quadri e sculture, tale discriminazione non ha portato all’eliminazione della cultura artigiana, bensì all’esasperazione del divario tra arti meccaniche e liberali. Dopo l’Illuminismo e ancora nell’Ottocento, l’Accademia ha mantenuto un’attitudine discriminatoria e ipocritamente disinteressata al denaro sotto forma di faziosa avversione nei confronti delle corporazioni artigiane. E da questo deriverebbe anche il preconcetto secondo cui non è possibile insegnare l’arte: perché non risponde a un codice di regole prefissato, come era uso nelle antiche gilde.
Con la transizione dai Salon al circuito delle gallerie private, l’ideologia del disinteresse si perpetua grazie a un apparato di mediazione costituito da mercanti, critici e curatori, che rilancia il mito del «genio». Nel Novecento l’esaltazione romantica dell’arte non mercenaria si radicalizza nella rinuncia al virtuosismo e nella figura dell’artista anti-borghese e persino anti-arte. Il paradigma è il readymade, che Beech analizza confrontandosi con le tesi formulate da Maurizio Lazzarato in Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro (2014). L’autore critica l’«azione-oziosa» duchampiana in ragione del fatto che questa si fonda su una strategia individuale e di conseguenza sposta la sfida dal terreno della lotta collettiva contro il capitalismo a quello della fuga personale – di chi può permetterselo, almeno – dalla schiavitù del lavoro. Senza contare, aggiunge Beech, che qualcuno ha materialmente faticato per fare l’orinatoio di cui Duchamp si è concettualmente appropriato; e che l’atto stesso dell’acquisto dell’orinatoio è lavoro. Qui come altrove nel libro, Beech si richiama alle teorie femministe, che hanno contestato il mito del «genio» e messo in discussione le categorie del lavoro.
Pur conscio del perenne dissidio degli artisti tra libertà creativa e necessità di sussistenza, Beech però non scava a fondo nella loro intricata storia di amore e odio con il potere. «Il retaggio aristocratico dell’ostilità dell’artista al capitalismo non sminuisce la sincera relazione antagonista dell’arte con i modi di produzione capitalistici, ma piuttosto ne fornisce una motivazione storica», dice l’autore. In realtà, quando la borghesia mercantile e industriale ha trionfato sulla vecchia nobiltà feudale, l’arte è stata subito asservita alle logiche della nuova classe dominante, in un tipico processo di assimilazione capitalista. Con il neoliberismo, infine, la situazione è diventata ancora più ambigua, tanto che ora è il mercato stesso a sollecitare l’affermazione discorsiva di ostilità al capitalismo, affinché l’opera incrementi il proprio valore finanziario. Malgrado ciò, Beech ritiene l’arte nemica del capitalismo e crede con ottimismo nella sua promessa di emancipazione; pertanto ne ribadisce l’importanza quale esempio di attività utile che, remunerata o meno, è in grado di generare «ricchezza materiale» anziché plusvalore.
Negli ideali di ozio creativo e di abolizione del lavoro riecheggiano le favole del Paese di Cuccagna, e se già Oscar Wilde reputava il lavoro una «seccante sozzura» da delegare a una macchina, il postcapitalismo confida che nel prossimo futuro l’automazione liberi una volta per tutte l’uomo da ogni noiosa incombenza. Eppure dovrebbe essere ormai assodato che la tecnologia non salva dallo sfruttamento; al contrario, è precisamente ciò che consente al capitalismo di sopravvivere alle sue crisi. Quindi Beech biasima l’ingenuità della Sinistra «accelerazionista» e tecno-entusiasta – Alex Williams e Nick Srnicek, Paul Mason, o Aaron Bastani e il suo «comunismo di lusso totalmente automatizzato» – convinta che la via d’uscita sia nell’automazione totale, poiché ciò è verosimilmente assai più redditizio per il capitalismo.
Per il resto, l’autore divaga chiedendosi se Facebook trasformi chi lo usa in un più o meno consapevole prosumer (produttore/consumatore), mentre con maggiore pertinenza sostiene che la svolta digitale non ha risolto i problemi legati all’estrazione e all’accumulazione di valore, nello stesso modo in cui l’arte concettuale all’epoca non ha eluso la mercificazione dell’opera attraverso la sua – spesso illusoria – smaterializzazione.
Nella scrittura, Beech si mostra ansioso di citare ogni referenza, a scapito della scorrevolezza di lettura. Nei contenuti, rimarca con acribia le contraddizioni e i vicoli ciechi di alcune correnti del pensiero progressista; e soprattutto, ha il merito di soppesare attentamente i pro e i contro di una effettiva equiparazione dell’artista al lavoratore salariato all’interno dell’industria culturale. Ciononostante, quantità e complessità degli argomenti trattati minano la forza del discorso, che collassa sotto il peso della propria ambizione di sanare la frammentazione del dissenso. Beech sembra più che altro preoccupato di assolvere l’arte dalla diffidenza del postcapitalismo, al fine di restituirla immacolata alla causa anticapitalista. Ma è fin troppo evidente che il nuovo proletariato digitale è antropologicamente capitalista, ha interiorizzato l’imperativo dell’inserimento nel sistema e stenta a immaginare e condividere una visione sovversiva.