Aveva scritto Stendhal in tempi in cui l’io poteva ancora dirsi saldo e coerente: «Quanta incredibile quantità di Io e di Me! C’è di far venire i nervi al lettore meglio disposto». Sabbie mobili Un’autobiografia di Sybille Bedford (Neri Pozza, buona traduzione di Simona Fefé, pp. 333, euro 16,50) mantiene la minaccia, mescolandola però al gioco. Sybille, o Billi come impariamo presto a chiamarla, scorazza nel tempo e nella scrittura senza alcun rispetto per la consecutio delle sue escursioni. Sempre l’eterno ragazzaccio, il dolce paggio, l’autista innamorato. Sempre figlia abbandonata nel bosco, salvata dalle fate, buttata in mano ai pirati, riscattata e adorna di perle preziose. La storia la corteggia e la chiama a testimone. Nel corteo dei Grandi Intellettuali tra le due guerre lei è il palafreniere malizioso che cerca il nostro sguardo. Sul cavallo splendidamente bardato sta il suo eroe, Aldous Huxley, seguito dalla numerosa famiglia di Thomas Mann, i figli Erika e Klaus, il cagnolino, l’impertubabile Auden che sposò Erika per farle avere il passaporto britannico , una poco credibile Virginia Woolf, Brian Howard e la sua banda di scapestrati Bright Young Things, tanti biondi sigfridi e bei giovanotti italiani, promettenti borsisti ebrei americani, madri vere e madri adottate, sorelle e amiche e amanti. Il corteo sfila dalla prima guerra mondiale alla seconda e oltre.
Bedford (che è il nome falsamente bloomsberiano di un proletario inglese sposato da Sybille per avere il tanto agognato passaporto britannico), nata nel 1911 a Berlino nella villa di Charlottenburg, da padre aristocratico cattolico e madre ebrea, ha pubblicato una biografia di Aldous Huxley (1973), un romanzo autobiografico Jigsaws: An Unsentimental Education (1989), libri di viaggio, cronache giudiziarie e per ultimo nel 2005, un anno prima della morte, questa narrazione romanzata della sua vita, dal titolo vagamente necrofilo Quicksands. Per i giovani e i giovanissimi che incapparono nella seconda guerra mondiale, l’inizio della propria autobiografia coincide con la fine di quella guerra, come accade anche alla francese Annie Ernaux (Gli Anni, 2008) che potrebbe aver letto le riflessioni di una Sybille poco più che trentenne: «A settembre del 1939 tutte le vite si spezzarono in due. Dopo la guerra il sollievo vertiginoso, l’allentarsi di quella cognizione del dolore e della morte sopportata a tutte le ore in scala tanto mostruosa, durò solo una manciata di giorni nell’estate del 1945».
La giovane Billi appartiene a una élite, quella dei ricchi ebrei tedeschi, intellettuali, generosi, in fuga dai nazisti e dalla guerra, in cerca di pace e bellezza in grandi case in riva al mare, spendendo poco, e gustando buoni vini francesi o italiani. Alla fine degli anni quaranta si trova a Ischia, pensa a se stessa come a una futura romanziera, in lotta contro la naturale pigrizia, la mancanza di una solida cultura, la sua personale estroversa simpatia per il mondo. Ha avuto la fortuna di conoscere l’intrepida Martha Gellhorn, ex-moglie di Hemingway, che nel suo «vigoroso, implacabile americano demotico e colloquiale» le ha trasmesso un prezioso consiglio dello scrittore: «Tutto ciò che dovete fare è scrivere una frase vera, e proseguire da lì». Consiglio mai dimenticato da Billie che si impegna nella lettura dei grandi classici e dei contemporanei Evelyn Waugh, Cyril Connolly, la prima Ivy Compton Burnett… Sotto il sole di Capri incontra casualmente Auden e Norman Douglas, l’autore di Old Calabria di cui allora si parlava tanto. Finalmente a Roma alloggia nel vecchio hotel in cui scendono solo inglesi e americani, l’Albergo d’Inghilterra, «incontrastata risorsa per i famosi, i bohémien e gli squattrinati». (Nel 1959 vi abitò anche Elizabeth Bowen quando preparava il suo intramontabile A Time in Rome )
«L’Italia del primo dopoguerra era magnifica… La cosa veramente importante era il modo di fare: le buone maniere reciproche, una chiacchierata piacevole, il calore. Il tipo di intesa che agli italiani viene naturale e che per un attimo ci induce a credere di far parte del genere umano». Compra fiaschi di vino rosso dal carbonaio di via della Croce e va a leggere nella bella biblioteca del Centro Studi Americani di Palazzo Antici-Mattei (oggi semideserta se non fosse per gli impiegati). Comincia ad avere problemi agli occhi. E di colpo torniamo indietro all’infanzia trascorsa nel castello del Granducato del Baden, a sudovest della Germania dove non tornerà più, al ricordo elegiaco della campagna, del buon vino bianco del Reno, degli alberi antichi, della casa-museo.
Con una preziosa Rolls-Royce inizia la sequenza delle grandi macchine di amici che Billi guida con allegria e sicurezza. È circondata e protetta da presenze generose, discrete, inimitabili di cui è innamorata, una cerchia di amici solidali, impegnati a sopravvivere in tempi difficili con imprese inedite poco adatte alla loro aristocratica grazia, alla loro disinvolta arte di vivere. La più generosa è Hannah Hoch (con dieresi sulla o), prestigiosa esponente del dadaismo tedesco, incontrata a Roma da Carla Vasio nel 1958 in occasione della mostra L’arte tedesca dopo il 1905. A Parigi Billi, adorante, è al seguito dei coniugi Mimerel, Pierre e Oriane, belli, insondabili, soavi, che incarnano il mito dei gemelli divini di musiliana memoria. Billi sa stare al gioco, sempre con la ferma aspirazione di diventare una grande scrittrice, accoglie aiuti, amori, consigli e confidenze. La sua scrittura fa spesso retromarcia, «esegue i propri ordini, spesso senza averli richiesti, è un affare strano e scombinato».
Ma è la vita stessa che si presenta come una partita a scacchi, una commedia che rischia di sconfinare nel vaudeville, con attori sempre diversi. «Qualcuno rimaneva sempre fuori. E di conseguenza c’erano il dolore, i tradimenti, le grandi rinunce ma anche meschinità, tentati suicidi, messaggi lasciati sulle toilette: un po’ di correttezza, e molte scorrettezze». Altra luminosa parentesi a Roma, con alloggio a Piazza di Spagna, in una terrazza nella casetta già destinata a lavanderia, con bellissima vasca romana. Un nuovo amore si annuncia tra le lenzuola stese al sole… ( ma non l’abbiamo già visto in Una giornata particolare di Scola? ). Tralasciando altri parenti, amici, amanti, gli « scontri intermittenti con gli eventi catastrofici del secolo e un ampio intervallo di esistenza personale intatta, libera…», e l’affetto speciale per l’eccentrico Klaus Mann, puntiamo al suo incontro con Aldous Huxley e sua moglie Maria in un villaggio di pescatori , Sanary-sur-Mer, nel sud della Francia, eletto a rifugio dalla sofisticata comunità di espatriati. «Ascoltai una voce espressiva, rilassata, argentina, la voce della generazione oxoniense di Jowett e Lewis Carroll, una voce già obsoleta ai tempi di Aldous, che resistette alle mode, ai venticinque anni negli Stati Uniti». Erano gli anni trenta, anni di lavoro, di vita gaia e elegante per la coppia Huxley e i loro amici. Lui sempre cordiale, paziente, pronto nell’offrire aiuto, senza vanità, incapace di odio o pensieri meschini, fermo nei suoi propositi – secondo il tributo commosso della sua giovane ammiratrice. Maria Huxley, affettuosissima e ansiosa, aveva l’abitudine di chiedere ai suoi indovini «Ce la farà Sybille?». Direi di sì, ce l’ha fatta.