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Beaudin, figlio di un dio minore amato da Kahnweiler

Beaudin, figlio di un dio minore amato da KahnweilerAndré Beaudin, "Les oiseaux s’eloignent", 1949, collezione privata

Riscoperte nell'arte: André Beaudin La sua parabola, sotto il segno del ‘mistico’ mercante del cubismo. Intimo di Juan Gris negli anni venti, di qui partì: misura, clarté, luce «dell’alba», un’opera sensibile, misconosciuta

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 1 ottobre 2023
Suzanne Roger, “Devant la fenêtre (André Beaudin dans l’atelier)”, 1923, collezione privata
Il piccolo salone dei Kahnweiler, uno dei set delle “dimanches” di Boulogne: in parete tele di Elie Lascaux, Suzanne Roger e Juan Gris

Dopo la débâcle dell’Hôtel Drouot, dove, come misura contro il nemico tedesco, furono disperse in asta, fra il 1921 e il ’23, le sue massicce riserve di cubismo dell’anteguerra, Daniel-Henry Kahnweiler doveva fare i conti con una scena dell’arte terremotata e, soprattutto, con una concorrenza spietata e a volte sleale, in particolare i due Rosenberg, Paul e Léonce. Uno via l’altro, tutti i pittori che il ‘mistico’ mercante di Mannheim aveva riunito, a partire dal 1907, sulle pareti della sua piccola e scabra galleria di rue Vignon lo abbandonarono, non essendo egli più in grado di corrispondere alle loro richieste economiche, sempre più esose: Picasso, Braque, Derain, Léger, Vlaminck. Unica eccezione, Juan Gris, oltre allo scultore Manolo. Fra i maestri della stessa generazione, raffinato compenso, riuscì ad annettere, però, Henri Laurens.
Ricordiamolo: Kahnweiler solo in minima parte, costrettovi dallo spettro dell’insolvenza, derogò dai principi della sua ‘missione’, fra questi l’esclusiva, che comportava una liquidità di base in grado di garantire agli artisti la mensilità. Nella tumultuosa trasformazione di termini e valori dopo l’ecatombe, con l’emergere prepotente del cosiddetto «ritorno all’ordine», cui diedero un contributo di suprema qualità gli stessi cubisti ‘di rue Vignon’, Kahnweiler si trovava a dover costruire – intorno alla nobile figura di Juan Gris e con meno denari – un nuovo insieme di affiliati, che potessero interpretare le istanze interbelliche. Ma a bilancio, fra gli artisti di ‘seconda generazione’ cui affidò di rappresentare la sua impresa, divenuta galerie Simon e traslocata in 29 bis, rue d’Astorg, l’unico davvero ‘contemporaneo’, non solo per l’implicazione surrealista, fu André Masson.
Ma, contemporaneo? Avremmo tutti gli argomenti, oggi, per mettere in questione un concetto e un sentire sortiti dal secolo, il Novecento, dell’avanguardia permanente; per recuperare, in nome della qualità, di una posizione circostanziale che ne fa dei preziosi documenti storici, o magari solo della simpatia umano-poetica, figure che non sono state ‘contemporanee’ e che tuttavia… hanno ricevuto la stima di Kahnweiler, colui che il secolo dell’avanguardia lo aveva battezzato!
Gli ingressi ufficiali in galleria
In ordine d’ingresso ufficiale in galleria, José de Togorès (1921), Elie Lascaux (1922), André Masson (1922), Suzanne Roger (1923), Eugène de Kermadec (1927), Gaston-Louis Roux (1927), André Beaudin (1935): a parte Masson, dimenticati, gli artisti-Kahnweiler ‘venuti dopo’ darebbero materia a un racconto storico vivacemente laterale intorno a colui che restava, nonostante i rovesci, ‘il mercante di Picasso’, e che tornerà a esserlo, con tutti gli onori, dopo la Seconda guerra. Il romanzo comporterebbe una serrata ricostruzione degli intrecci sentimentali con gli scrittori e i critici fiancheggiatori, e delle scene di ambiente relative. Si incontravano nell’atelier di Masson, al 45 di rue Blomet, sede miserabile di un cenacolo infiltrato dalla montante sensibilità surrealista; a volte, proprio, nel dominio surrealista di André Breton, il café Cyrano sulla place Blanche; e soprattutto – per quel che riguarda l’oggetto del nostro fuoco: André Beaudin! – nel nuovo appartamento di Kahnweiler a Boulogne-Billancourt, Parigi banlieue ovest: lo aveva preso in affitto, pagando in tableaux, dall’amico di Berna, e collezionista di cubismo fra i primi, Hermann Rupf, che tanto lo aveva aiutato nell’‘esilio’ svizzero durante la guerra. A Boulogne si svolgevano le dimanches rese celebri dall’affettuoso sodalizio di Kahnweiler con Juan Gris, al quale egli aveva trovato una casa proprio vicino alla sua, più adatta dello «spaventoso» e «insalubre» Bateau-Lavoir alle sempre più frequenti crisi d’asma dell’amico castigliano: Juan e il suo ‘angelo’ Josette vi si trasferirono nella primavera del ’22.
Kahnweiler, nella monografia dedicata a Gris (Gallimard, 1946), a proposito delle dimanches di Boulogne: «Gris era presente a tutte le riunioni. Si danzava al suono del fonografo che egli portava: nell’anticamera in inverno, nel giardino in estate. Era un va-e-vieni continuo fra le due case. Si saliva all’atelier di Gris per vedere le ultime tele. Dopo cena si discuteva, si giocava, si cantava». Senza indugiare sugli ingredienti socio-culturali di quei ritrovi, per Kahnweiler «una specie di seconda giovinezza», elenchiamo gli astanti. Intanto i più intimi, imparentatisi con il gallerista tedesco tramite sua moglie (dal ’29) Lucie Godon: Élie Lascaux, che nel ’25 sposò Berthe, di Lucie sorella, e Michel Leiris, dal ’26 marito di Louise, di Lucie figlia, nata da una relazione precedente: Louise sarà figura determinante nella storia della galleria, che nel 1940 – il suocero ebreo per parte di madre – prenderà il suo nome. Ecco gli altri: i Raynal, Jacques Lipchitz, i Masson, Erik Satie, Antonin Artaud, Max Jacob, i Salacrou, André Malraux, Le Corbusier, Roland Tual, Georges Limbour, Suzanne Roger e André Beaudin… Prima di inoltrarci nel sogno temperato che fu l’opera di quest’ultimo, diciamo che le dimanches subirono via via lungo gli anni l’incalzare dell’amarezza, per la crisi economica poi sboccata nel ’29 e, soprattutto, per l’aggravarsi della malattia di Gris, fino all’agonia drammatica, e alla morte a soli quarant’anni, nella primavera del ’27.
Tra i pochi che assistettero all’agonia, accanto alla famiglia allargata Kahnweiler, c’era anche Beaudin, insieme alla Roger, sua moglie. A quell’epoca, nonostante l’intimità con il milieu del mercante tedesco, il pittore francilien di Mennecy, classe 1895, non era ancora entrato nella sua scuderia – lo trattava André Level, Galerie Percier. Kahnweiler ha stabilito in Gris l’ascendenza immediata di Beaudin. «Tuttavia Gris è un maestro incomparabile, e la sua lezione, se compresa fino in fondo, non farà che liberare le forze proprie dell’allievo, il quale non imiterà mai l’aspetto del maestro»; l’eredità legittima è dei pittori «la cui opera non assomiglia in niente alla sua»: che, al contrario della ‘copista’ Marie Blanchard, sembra proprio il caso di Beaudin. Sempre Kahnweiler vide, fra i legittimi eredi di Gris, Ozenfant e Le Corbusier, la cui opera giudicò tuttavia sclerotizzante: nato intorno al 1918, fissandosi a quella precisa stagione – la più canonica – della produzione di Gris, il purismo non colse la libertà della sua lezione in divenire. Ciò che sembra aver colto, invece, il più giovane Beaudin, come Gris «un pittore classico, profondamente sensibile, certo, ma che assoggetta lo strabordare delle passioni alla lucidità razionale, a una preoccupazione d’ordine, di clarté, di purezza» (Kahnweiler, Mes galeries et mes peintres, Gallimard, 1961). È che Beaudin, insieme alla Roger, poté avvalersi della prossimità personale con Gris: lo adorava e pendeva dalle sue labbra ed era ricambiato, le tele della coppia furono fra le rare a essere accolte nell’intérieur del maestro.
Max Jacob, l’anello di congiunzione
Un mito tascabile si formò intorno al ménage di Beaudin con la Roger. Si erano sposati nel dicembre 1919, Suzanne era stata «madrina di guerra» di André negli anni del fronte. Participano, suoi coetanei, alla dolorosa preistoria di André Masson, che li introduce a Max Jacob, il poeta dolce e disarmato suscitatore di tanti fruttiferi intrecci, persino dal suo rifugio benedettino di Saint-Benoît-sur-Loire: è attraverso Jacob, già protagonista della stagione aurea del cubismo, che si collegano a Kahnweiler. Artisticamente opposti: Suzanne è spirito romantico, pesca nel quotidiano gli spunti del suo operare, restituiti sotto «una fiamma oscura», e alla metà degli anni venti piega esistenzialmente la lezione meccanica del suo maestro Léger con una serie di perturbanti tableaux noirs. Beaudin, e lo vedremo, è piuttosto «pittore dell’alba». All’inizio vivono in un appartamento sulla Place d’Italie; dal ’25 si spostano in un’altra piazza, square de Clignancourt, verso Montmartre, dove resteranno fino alla morte (Beaudin 1979, Roger ’86). L’atelier è in comune, fra le mura domestiche: la Roger lavora il pomeriggio; Beaudin la mattina, ma pretende di trovare tutto in ordine, ha in orrore il trambusto.
Georges Limbour, lo scrittore amico
La letteratura critica rimprovera in generale a Juan Gris gli ‘allentamenti’ via via più pronunciati nel corso degli anni venti, il cedimento a una voluttuosità curvilinea che intacca il rigore sintetico. Gli incastri geometrici, i ritmi, sono meno serrati, sorta di umanizzazione d’una poetica matematicamente prestabilita. Beaudin, dopo il viaggio in Italia del 1921, che gli dà modo di ‘aprire gli occhi’ (i primitivi, Cimabue!), sottopone a verifica la sua iniziale adesione al cubismo e si aggancia al Gris in atto, sviluppandolo nel modo più personale
L’impianto del quadro è saldo e misurato, ma quasi contraddetto liricamente dal penetrare sinuoso e flessibile della linea, che se in un primo momento si accorda senza scarti alle esigenze chiaroscurali di una ciclopica integrazione volumetrica (Maternité, 1925), si dissocia poi sempre più in arabeschi nouveau, fino ai giochi d’ombra in cui guizza come mani staccate che fluttuano nello spazio. Fantasie, queste ultime, fine anni venti, che Georges Limbour, uno degli scrittori amici di Beaudin, associò suggestivamente, più che a una tentazione surrealista, al ricordo che egli poteva avere di una precisa esperienza, quando, rientrando a casa dopo la serata di scacchi, era costretto a salire sei piani per una scala niente illuminata, e forse obbligato ad accendere un fiammifero, la chiave «tesa verso una serratura lontana e immaginaria».
La solarità di Beaudin, la razionalità del suo costrutto, non impedisce l’infiltrarsi dell’inquietudine e del dubbio, che in quella stagione storica avrebbe potuto tradursi nell’adesione all’enigmatica surrealista, come fu per Masson. Intimi, partiti da analoghe premesse, fino al 1925 dialogano strettamente, seppure già si avverta in Masson il ribollire espressivo, la ricerca dinamica, che avrà poi gli esiti violenti e centrifughi che sappiamo. Beaudin non si è mai proposto, come l’amico, di sfondare gli spazi con ardore immaginativo, piuttosto di comporli in una griglia chiara e verificabile, accarezzata dalla «luce pura, quale appare all’uscir della notte» (Jacques Lassaigne).
È proprio nella luce, scrisse (1926) lo stesso artista, che riposa «la virtù misteriosa della pittura»: luce che si invera, almeno nella sua prima stagione, in una tavolozza pudica e smorzata, al servizio del velare e del trasparire, dell’alludere. Pittore del suo tempo, la razionalità, la classicità, Beaudin non può intenderle rotonde e compiute: lasciano agire l’inespresso. Quando nel 1930, sotto l’impressione di Rodin, Les bourgeois de Calais, approccia la scultura, si tratta di una verifica – dichiara – di quel che si nasconde dietro i suoi dipinti: vuole «saggiarne le assise invisibili» (Limbour). D’altro canto quasi ogni opera, dipinto o acquarello, è toccata da nuclei-fantasma, linee grafiche non sviluppate, spazi non trattati, accenni di un’immagine ulteriore: sprezzature da maestro.
L’ultimo omaggio a Beaudin, vera restituzione morale, è stato, nel 1999, la grande retrospettiva di Belfort: tutta nell’antico segno di Kahnweiler. Organizzata a partire dal nucleo di opere dell’artista già appartenute a Maurice Jardot, e da questi donate (con l’intera sua collezione modernista) al paese natale, appunto la ‘bressoniana’ Belfort, la mostra ha avuto per curatore Patrick Gilles-Persin: Jardot era stato il socio di Kahnweiler a partire dal 1956, quando la galleria si trasferì da rue d’Astorg all’8 di rue de Monceau; Gilles-Persin, classe 1943, della galleria fu assistente nella prima metà degli anni settanta, Kahnweiler quasi novantenne.
Nei secondi anni trenta Beaudin scopre la retta e la diagonale: il suo universo visivo si fa più acuto e spigoloso. Gilles-Persin suggerisce un’origine per questa svolta: Robert Delaunay, con cui Beaudin, insieme ad altri come Bissière ed Estève, collaborò, nel 1937, alla realizzazione dei grandi murali per l’Exposition des Arts et Techniques, a Parigi. Anche il colore, da sommesso e nuancé, si fa localizzato e squillante. Nello stesso ’37, l’anno di Guernica, due opere maggiori, due Parties, rispettivamente di quattro e otto cavalieri (quest’ultima, Centre Pompidou, già collection Kahnweiler-Leiris), comportano, nella frammentarietà a ritagli e incastri, un gioioso riesame del cubismo. «Il disconoscimento dell’opera di Beaudin… una delle più grandi ingiustizie della nostra epoca»: bisogna credere alle parole di Picasso, colui che aveva disconosciuto, crudelmente, il maestro ideale di Beaudin, Juan Gris?
Paul Eluard, l’anima gemella
Ancora nel ’37 Beaudin riconobbe Paul Eluard quale anima gemella, e ne fu corrisposto: dal che il libro d’artista Double d’ombre. Il nuovo dinamismo geometrico, che spezzetta la superficie, la sottopone ad ardenti dislocazioni e fughe spaziali, la anima con pungenti tracciati grafici, trova il miglior commento nelle parole di Maurice Raynal, il critico cubista della prima ora che tanto amava Beaudin: «lirismo plastico nell’architettura di una prosodia della quale bisogna immaginare la cornice e le regole…».
La cornice, le regole, come (ancora Raynal) nell’alessandrino di Mallarmé, danno luogo, dopo la Seconda guerra, a dipinti che sembrano dialogare con i coevi ‘palazzi’ di luce di quell’altro mallarméen che fu Jacques Villon: Portes e fenêtres, 1950. Pittore di volti dagli occhi chiusi e di mani vaganti, di danze e di fiori, di cavalli e di vacche, di uccelli, i più ordinari, i passeri parigini, soprattutto negli anni cinquanta Beaudin si apre al paesaggio, in due direzioni, come ha spiegato Limbour. La prima è allusiva, restano larvate le referenze, siano vele sul lago di Ginevra, siano finestre brillanti nella notte, che stregano dalle facciate dell’edilizia popolare. L’altra è architettonica, «in piena luce l’armatura… dello spettacolo considerato»: ecco i paesaggi ‘grafici’ di Notre-Dame, dei ponti ‘a spaziare’ sulla Conciergerie, sul Louvre…
Figlio di un dio minore, Beaudin conobbe in questa stagione il riconoscimento pubblico, fino alla retrospettiva del Grand Palais, 1970, seguita da un progressivo oblio. Kahnweiler festeggiò il suo pittore con una mostra, tarda primavera del 1957, nella nuova galleria, ad ampie vetrate sui giardini, di rue de Monceau: subito prima erano stati di scena Picasso e Masson. Il mercante utopistico non aveva mai smesso di credere in Beaudin. Nel secondo rovescio della sua vita, quando, come ebreo, subì l’esilio interno e dovette traslocare al Repaire-l’Abbaye, Limousin, dai Lascaux, lì, in aperta campagna, ricostituì il gruppo delle dimanches: scomparsi Gris e Satie, assente Max Jacob, ebreo convertito che nel suo ritiro conventuale si era cucito addosso cristianamente… la stella gialla, per poi finire i suoi giorni, marzo ’44, nel campo di transito di Drancy. Anche Beaudin soggiorna al Repaire, sei mesi, nel ’40: qui, pellegrinando nei campi, fa amicizia con Queneau.
Kahnweiler: sembra vivere questo lungo intermezzo come in sogno, un tempo sospeso, a suo modo felice: «il paradiso all’ombra dei forni crematori», lo chiama, terribile, ‘testamentario’. Scrive finalmente la monografia kantiana su Juan Gris, anche una ‘confessione’, e qui trova il suo posto, fra i «neomanieristi» «féru de style» discesi dal più persuaso degli antichi cubisti, il fine e sensibile André Beaudin.

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