Lo ha definito il suo libro «più terreno, quello in cui il Brasile appare più nitido, non solo nei suoi sentimenti e azioni intime, ma anche nel suo territorio e nello scorrere del suo tempo». Antonio della scrittrice brasiliana Beatriz Bracher (Utopia, pp. 192 euro. 19, traduzione di Prisca Agustoni) è un memoir polifonico e frammentato in cui un figlio, spossessato del proprio retroterra affettivo, è alla ricerca di una scomoda radice – quella paterna. Non è un caso questo suo peregrinare fra le pieghe dell’esistenza: il protagonista silente Benjamin, motore narrativo invisibile, sta per diventare padre e ha necessità di ricucire gli strappi provocati dai tasselli mancanti alla definizione della sua identità. L’elaborazione di quel vuoto incontra diverse voci che ricostruiscono una storia spigolosa, i cui fili si dipanano tra assenze, amori sdoppiati (ancora una volta fra padre e figlio), lunghe solitudini e vagabondaggi che lambiscono il territorio della pazzia e la vergogna con cui è stigmatizzata socialmente. Autrice di romanzi, sceneggiatrice e editrice, Beatriz Bracher è nata a san Paolo nel 1961 e fino alla proposta di Antonio era ancora inedita in Italia.

La storia famigliare narrata in «Antonio» si sviluppa accogliendo le verità soggettive di diversi personaggi, altalenando tra realtà e finzione e giocando con il lettore, smascherando continuamente l’origine puramente letteraria del racconto…
Penso che i tre narratori del libro si sforzino di essere profondamente onesti. Non raccontano solo la storia di un figlio, di un amico o del figlio di un amico, ma la propria, attraverso frammenti delle loro esistenze intrecciate con quella di Teodoro (il padre di Benjamin, ndr). E ci sono conti da regolare, ognuno ha le proprie colpe o, almeno, si chiede se avrebbe potuto fare di più per una persona che, alla fine, si è rivelata fragile. Ritengo che la finzione che emerge dalle vicende che ognuno dei tre racconta, la rivelazione che si tratti ogni volta di un’interpretazione «manipolata» e non di una storia «vera», integri l’onestà stessa del libro.

La trama e anche i toni – non il linguaggio, che invece è colloquiale – rimanda alla coralità greca della tragedia e, naturalmente, il riferimento principale è Edipo. Cosa l’ha portata verso questo «archetipo»?
Forse la letteratura greca, che è la madre di tutti noi (e non solo delle nostre letterature, ma dei modi in cui costruiamo la storia della nostra vita), è così radicata in me che non è nemmeno più letteratura. Sono io, in prima persona. O, per dirlo con più precisione, la letteratura greca è la sostanza che, insieme ad altre tradizioni, costituisce la carta bianca su cui scrivo le mie storie. L’idea di un coro è molto affascinante e pertinente. Da un lato, i tre racconti hanno un tono giudicante, ricordano la città, la famiglia o la generazione che giudica le azioni di questo figlio, quasi fino a trasformarsi in un’eco che perpetua la sua storia. Dall’altro, però, qui i cori sono tre, non uno: la trama si spezza, si sfilaccia, e non c’è un verdetto. Da questo punto di vista, forse la struttura del libro è il tracollo stesso di ogni pretesa corale.

Il protagonista Benjamin – che è anche all’origine della storia – non compare mai, non parla. Tutti si rivolgono a lui, ma lui resta solo un nome. È una specie di alter ego letterario del lettore, che lo rende complice di ciò che accade?
È il duplicato del lettore e del suo stesso padre, Teodoro, il personaggio di cui si racconta nel romanzo. È insieme la seconda e la terza persona nel discorso dei narratori. È il lettore perché è colui che ascolta. Ascolta soltanto, ma ha una vita al di là di quello che «non sentiamo», ed è ciò che dà forma alla storia. In qualche modo, conduce suo padre dalle persone che gli parlano, quindi è un uomo colmo di significati che influenzano il modo in cui vengono riportate le vicende. Ho voluto che il lettore provasse la sensazione di essere colui che guida l’azione, come in realtà credo che succeda sempre.

Nel romanzo la morte, con tutta la sua ingombrante e sconvolgente fisicità, è quasi più presente della vita. Eppure il libro prende l’avvio grazie alla nascita imminente di un bambino, quell’Antonio cui fa riferimento anche il titolo…
Si parla molto della storia di questa famiglia, una famiglia in cui tutto è verbalizzato, che ha educato un’intera generazione a discutere sempre, perché a tutto c’è una spiegazione. Anche da questo fugge Teodoro. Il corpo, e niente è più fisico di un corpo che diventa cadavere, ha bisogno di parlare perché la vita si riveli. Che la nascita sia un inizio, come vuole Benjamin? O un nuovo inizio, come gli spiega Isabel? Ecco il grande mistero che questo libro non risolve.

Può parlarci della sua esperienza di Editora 34?
Abbiamo fondato Editora 34 in otto, nel 1992. La nostra idea era quella di creare una casa editrice con molte collane: ognuno di noi avrebbe dato spazio alla propria specializzazione. La collana di fantascienza Rama, diretta da Bráulio Tavares, avrebbe affiancato Borges ad autori americani degli anni ’50 e brasiliani dell’inizio del XX secolo. Quella di filosofia, Trans, diretta da Eric Alliez, non sarebbe stata solo filosofica: si proponeva, infatti, di dare spazio a diverse discipline, trasformandole in storia delle idee, proprio perché incluse in una «serie» filosofica. Così anche per la collana Leste, diretta da Nelson Ascher, con libri dell’Europa dell’est, in cui i classici potevano convivere con i contemporanei di un Oriente ampio, non solo russo. E poi la Nova Prosa, dedicata alla letteratura brasiliana contemporanea, e Teoria da Literatura, diretta da Luiz Costa Lima. Non tutto ha avuto successo e non sempre è stata rispettata l’idea originale. Ma rimane viva l’intenzione di intervenire nel mondo letterario brasiliano in molti modi soggettivi, senza eclettismo e con il desiderio di ridefinire i perimetri. L’esperienza editoriale mi ha dato il coraggio per provare a essere una scrittrice: ho riconosciuto dietro l’attività della scrittura un universo di donne e uomini, e non di dee e dei.

Quali sono le sue fonti di ispirazione letterarie? Lei ha vinto un premio intitolato a Clarice Lispector: è una scrittrice che definirebbe importante nella cornice della sua formazione?
Riconosco alcune fonti di ispirazione. Scrittori che ammiro, che alimentano la mia vita e il mio modo di intendere il mondo e il mio lavoro. Opere da cui ho imparato che tutto vale, in letteratura, dalle strutture più plastiche, come nell’Odissea, a quelle che si nascondono nel flusso della storia, come ne Le palme selvagge (Faulkner). La verità delle storie riposa sicuramente nel modo in cui il personaggio tace, come in Vite secche (di Graciliano Ramos), o nella velocità e simultaneità di ciò che il personaggio vede e pensa, come in Ulisse. Ci sono autori che mi stregano, come Beckett, Kafka e, soprattutto, Machado de Assis. Anche Pedro Nava e Mishima: mi commuovono nel profondo dell’anima, con le loro fragili e fiere certezze. Ho un rapporto difficile con Clarice Lispector e Guimarães Rosa. Forse perché in tantissimi li adorano e li citano, spesso semplificandone la ricezione, fino quasi a trasformare le loro opere in letteratura addolcita. Ma quando li leggo mi affascinano, sono sempre sorprendenti e misteriosi. E poi, quando chiudo i loro libri, si trasformano e tornano a essere ciò che il tempo li ha resi.

Fin dai tempi della sua raccolta di racconti Meu Amor (2009), lei mostra tutta la fragilità del Brasile contemporaneo….
Sento che la crudeltà e l’intensità del piacere che si prova nel distruggere (come nei racconti Cloc, clac, Duas fotografias sobre o natural, Ficção, Davi) sono diventate non solo pubblicamente accettabili, ma proprio dei modi di agire per chi sarebbe poi stato eletto a guidare il paese. Il candidato che ha elogiato la tortura, ha paragonato i neri al bestiame, ha difeso lo stupro (in base a quanto provocante sia la donna), la distruzione delle terre indigene e delle leggi sulla tutela delle foreste non ha deluso i suoi elettori. Vivere in tempo di pandemia, durante il suo mandato, ha reso ancora più evidente la mancanza di empatia e il complice rapporto con la morte, così osceno, del presidente Bolsonaro. N on è un errore politico: è stato eletto perché molti brasiliani possano compiacersi della sofferenza altrui. Ma anche per chi si sente oppresso da quel gioco di scontri permanenti che è la democrazia, per chi oggi fa i conti con i cambiamenti che mostrano la fragilità di ciò che era «normale» fino a poco tempo fa – famiglia, maschilismo e gerarchia tra le etnie – anche per queste persone vedere ciò che ha fatto il governo è molto spiacevole.

Sta lavorando a un nuovo romanzo?
Posso dire che ho letteralmente «costruito» un nuovo romanzo. Ho ripreso brani di vari testi che hanno scritto alcuni combattenti nella guerra paraguaiana (la guerra di Brasile, Argentina e Uruguay contro il Paraguay, tra il 1864 e il 1870). Ora li sto mettendo insieme per articolare una storia sulla nostra guerra, unica e dimenticata, attraverso il racconto polifonico di diverse «prime persone».