Non è facile trovare una produttrice come Beatrice Bulgari (il termine «mecenate» non lo ama, anche se, di fatto, lo è davvero) che investe i propri soldi in un genere ben poco commerciale quale è il film d’artista. Eppure questa signora colta e raffinata, sicula di origini, con il suo marchio «In Between Art Film» in soli 13 anni ha finanziato alcune decine di opere audiovisive, di autori italiani e internazionali, tra cui: Ancarani, Beecroft, Bismuth, Colomer, Kentridge, Masbedo, Neshat, Pamuk e Gianikian-Ricchi Lucchi, oltre a sostenere progetti di importanti manifestazioni e istituzioni del mondo dell’arte quali la Biennale di Venezia, Documenta, Manifesta, il Maxxi e la Tate Modern.

Il suo ultimo progetto, Mascarilla 19 – Codes of Domestic Violence, composto da 8 cortometraggi sul tema della violenza domestica nei confronti delle donne, è stato concepito durante il lockdown primaverile, realizzato subito dopo e presentato al Maxxi di Roma.

Beatrice – che ha un passato come costumista per il cinema – mi accoglie nella sua abitazione-museo dove resto ipnotizzato da un superbo Kiefer alla parete, mentre mi fa un bilancio della sua creatura che si è appena trasformata da società di produzione in fondazione. «In questa casa che tra poco lascerò ci sarà la sede della fondazione e ho intenzione di tenere qui talk con gli artisti e altri eventi».

Come nasce l’idea di «In Between Art/Film» che, fin dal titolo, denuncia la sua natura borderline?
Un po’ per caso: vidi il documentario di Olmi su Kounellis e rimasi affascinata dal suo modo di seguire, giorno dopo giorno, l’opera nel suo farsi, restituendo lo sguardo dell’artista. La prima cosa che in assoluto ho fatto è stata, nel 2007, un premio per giovani videoartisti. Poi ho avuto l’incontro decisivo, quello con i Masbedo e mi ricordo che chiesi loro se amassero il cinema di Antonioni (a cui nei primi anni ’80 sono stata legata da forte amicizia), perché nei loro film scorgevo il medesimo senso dello spazio, del tempo, dell’inquadratura. Dopo aver realizzato alcuni lavori gli ho proposto di finanziare il lungometraggio The Lack (2015). Ma non volevo diventassero registi, bensì che portassero il loro sguardo da videoartisti artigianali fuori dal circuito del cinema, basato sull’immediatezza.

Sei una produttrice atipica in un panorama come quello italiano.
Ho la fortuna di avere una grande libertà di scelta e mi lascio guidare dal mio intuito, dalla passione verso il lavoro degli artisti. In questi anni ho avuto modo di maturare entrando a contatto con varie realtà e imparando sul campo.

Quale obiettivo ti poni adesso con la nuova fondazione di cui fanno parte in veste di curatori Leonardo Bigazzi, Alessandro Rabottini e Paola Ugolini?
Continuare nel solco di ciò che ho imparato in questi anni, in cui sono stata a stretto contatto con talent, artisti e videoartisti. Non sono interessata solo al cinema ma all’ibridazione dei linguaggi: dunque anche a un libro, a una performance teatrale o a un esperimento che non può essere collocato in un spazio preciso.

Parliamo ora del progetto «Mascarilla 19». Lo spunto di partenza è l’iniziativa della Spagna che ha offerto alle donne vittime di violenza, acuita durante il lockdown, la possibilità di essere aiutate recandosi nelle farmacie e pronunciando la parola in codice che dà il titolo a questo film collettivo.
Non volevo inseguire una moda, ma ero incuriosita dallo stratagemma – che poi ha avuto risultati concreti – escogitato dal premier spagnolo. Mi interessava che gli otto artisti concettualizzassero questo tema e ho voluto dare loro una iniezione di fiducia, non solo economica (ho finanziato con 10mila euro ciascun film) ma anche psicologica, in un momento in cui tutto era fermo. E spero che questo ottimismo si rifletta nelle varie opere. Alcuni artisti avevano paura di toccare un tema così intimo e delicato, poi, anche con l’aiuto dei curatori, hanno trovato la chiave giusta.

Quali tempi e condizioni hai posto?
Ogni artista era libero di co-produrlo qualora non fosse bastato il budget e avrebbe potuto stampare un massimo di dieci edizioni del loro lavoro (donando un esemplare alla fondazione). Gli 8 autori hanno elaborato il soggetto entro un mese, discusso con il curatore referente, poi hanno cominciato a girare in estate, consegnando il loro film il 30 settembre.

Dal punto di vista commerciale il film d’artista è un «oggetto» difficile da vendere nel sistema dell’arte. Come ti regoli?
Per fortuna esistono festival in Italia e all’estero dove ho visto cose molto belle ma, certo, la videoarte fa fatica ad affermarsi. Vi sono gallerie specializzate alcune delle quali vendono una edizione di un film a costi stratosferici: ricordo di aver chiesto qualche anno fa alla galleria Marianne Goodman (che nel frattempo chiude i battenti a Londra, ndr) a New York il prezzo di un’opera di Anri Sala e mi è stato risposto 350mila dollari. Inavvicinabile.
Spesso artisti e galleristi non vogliono diffondere le opere basate sulle immagini in movimento per paura di svalutarle economicamente. Il problema esiste e ognuno si regola come crede, a me non piace che i lavori prodotti non siano visibili, voglio mostrarli il più possibile ed è per questo che ho ideato gli screening program.

Cosa c’è nel futuro di «In Between Art/Film»?
La co-produzione del lungometraggio La peste di Francesco Patierno, con cui ho già avuto rapporti per Napoli ’44, e poi un mediometraggio dei Masbedo sul finto bombardamento del 1943 a Pantelleria, che avremmo dovuto girare a marzo, ma è stato bloccato dal Covid. Poi ho in cantiere altre due o tre produzioni di giovani videoartisti. Inoltre ho in mente di creare residenze in luoghi extraurbani, là dove il paesaggio stesso acquisti un significato nuovo grazie all’interazione con l’artista.

Ci sono personaggi con cui ti piacerebbe lavorare?
Beh sicuramente con Isaac Julien. Poi vorrei scoprire un giovane Matthew Barney da seguire e sostenere, rinnovando lo «scambio» che ho avuto con i Masbedo.

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Il progetto
Sono otto gli artisti invitati a misurarsi con il tema della violenza domestica durante l’epoca del Covid: Iván Argote (Colombia/Francia, 1983, «Espacios Seguros»), Silvia Giambrone (Italia/Inghilterra, 1981, «Domestication»), Eva Giolo (Belgio, 1991, «Flowers blooming in our throats»), Basir Mahmood (Pakistan/Paesi Bassi, 1985, «Sunsets, everyday»), MASBEDO (Italia, Nicolò Massazza, 1973 e Iacopo Bedogni, 1970, «Daily Routine»), Elena Mazzi (Italia, 1984, «Muse»), Adrian Paci (Albania/Italia, 1969, «Vedo rosso»), Janis Rafa (Grecia, 1984, «Lacerate»). Il risultato è un’opera collettiva molto piena di suggestioni, composta da film molto diversi tra loro, che oscillano dalla documentazione («Argote») alla metafora, magari accostando il mito antico (Mazzi) con il racconto autobiografico (vero o ricostruito?), il simbolismo e l’introspezione psicologica (Giambrone), affidandosi in alcuni casi alla sola potenza dello spazio («MASBEDO») e dell’immagine («Argote», «Giolo») fino ai suoi risvolti più formali («Rafa»), in altri a un minimalismo iconografico («Paci») controbilanciato da un denso intervento della parola parlata. Gli 8 film saranno ospitati da Lo schermo dell’arte (Firenze, 10-14 novembre) che si svolgerà solo in streaming sulla piattaforma «Più Compagnia» in collaborazione con MyMovies.it. Nel 2021 il «Mascarilla 19» sarà proiettato in una rete di istituzioni culturali all’estero