Si stanno celebrando in tutto il mondo i cinquant’anni di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles, l’album rock per antonomasia, il disco del XX secolo senza se e senza ma, il vinile-culto da almeno quattro generazioni, il long playing che segna uno spartiacque epocale nel sound cosiddetto giovanile a livello artistico, storico, politico, sociologico. Ma è davvero il miglior lavoro dei Beatles? O il non plus ultra dell’universo pop? Due domande a cui è forse impossibile rispondere, alle quali non bisogna sottrarsi per dovere critico del fenomeno medesimo: e prima di addentrarsi, resta ferma l’importanza assoluta di un prodotto «commerciale» che, per la prima volta, nella storia della popular music (di cui il rock in quegli anni inizia a essere il principale filone) assurge a opera d’arte, a icona multicolore non solo di un’annata particolarmente felice sotto il profilo musicale, ma in primis di un intero decennio (i «favolosi» Sixties) e del secondo Novecento, il «secolo breve», come viene definito da Eric Hobsbawn, lo storico marxista, in grado di apprezzare tanto Bessie Smith quanto il British blues e di scriverne in un volume memorabile (tradotto in Italia come Storia sociale del jazz, utile per capire anche tutta la musica contemporanea, Beatles compresi).

Ecco allora che Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band potrebbe essere tranquillamente l’allegoria della brevità accelerata del XX secolo, assieme agli ulteriori eventi esplosi appena dopo la pubblicazione del disco: l’estate dell’amore, il sogno californiano, la contestazione giovanile, la rivoluzione sessantottesca, l’evolversi del rock verso un progressivo affinamento del proprio credo estetico, giungendo, sempre «in breve», a quel prog rock (non a caso un appellativo quanto mai calzante) di cui molti critici scorgono le radici proprio nel masterpiece beatlesiano. Già nel 1967 in Inghilterra, negli Stati Uniti, persino in Italia (dove in fondo la beatlesmania resta minoritaria) recensori spietati, fan incalliti, giornalisti provetti, persino musicisti vicini all’avanguardia dotta, gridano al miracolo a proposito dell’album, verso il quale – per rispondere al quesito sul miglior album dei Beatles – bisogna considerare quanto compiuto, prima e dopo, in soli dieci anni (ancora una volta un periodo hobsbawniamente breve) da uno dei tanti complessini di Liverpool che animano il Mersey Beat ossia la scena locale nei primissimi Sessanta, ma che in tempi record, diventano star planetarie e idoli universali: annoiati e depressi dalla loro stessa immagine e dal conseguente divismo (che pur li rende miliardari), i Beatles nel 1966 abbandonano il lavoro più redditizio in termini di sterline (concerti e tournée) per dedicarsi all’unica vera attività preferita: la (nuova) musica.

Per i Beatles che nel 1967 si accingono a proporre Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band questo è il primo anno senza esibizioni live da circa un decennio: e tale sarà per i mesi a venire – salvo i 30 minuti sui tetti di Savile Row – fino allo scioglimento del quartetto nel 1970. Per Lennon, McCartney, Harrison, Starr, dunque artisticamente la musica dal vivo non significa più nulla già alla fine del 1965: stanchi di ripetere pedissequamente i soliti motivetti in british beat style (da loro stessi «inventato», assieme a George Martin e Brian Epstein, il produttore e il manager) hanno voglia di sperimentare, di allargare o superare i confini della forma-canzone, di esprimersi quali compositori e di valorizzarsi come musicisti da studio. John, Paul, George e Ringo intuiscono, forse per primi nel mondo del pop e del rock, che la musica necessita di sempre maggiori (e migliori) esperienze, realizzabili solo a partire dalla tranquillità di una sala di registrazione, lontano insomma dai riflettori di uno stadio, un teatro, una music hall.

OLTRE I LINGUAGGI

Già l’album Rubber Soul, uscito nel dicembre 1965, suona diverso rispetto ai precedenti: l’iniziale stile yé-yé è via via rimpiazzato con brani inediti denotanti anche profonde conoscenze di altri linguaggi musicali, dal folk al barocco, dall’antico rinascimento alla nascente psichedelia. Nell’ellepì successivo, Revolver (uscito nell’agosto 1966) i Beatles vanno ancora «oltre», nel novero della ricerca: fino a quel momento è il loro disco migliore esteticamente, vario, originale, curioso, innovativo nel condurre la rock song (veloce o lento) a confrontarsi con altre sonorità eterogenee, accogliendo, con mirabolanti riletture, elementi classici, frammenti sperimentalisti e persino il soul nero e il raga indiano. In tal senso Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band è il figlio legittimissimo sia di Rubber Soul che, soprattutto, di Revolver: assieme a Magical Mystery Tour formano un polittico ideale di avanguardia beatlesiana che, in seguito, negli ultimi lavori – Yellow Submarine, The Beatles (il White Album), Abbey Road, Let It Be – sarà riconvertita o stemperata in atteggiamenti nostalgici (il rock and roll) o individualistici (contributi sempre più attribuibili a ogni singolo Beatle).

Dunque, benché quasi tutte le canzoni di Revolver – e lo stesso dicasi per metà del White Album o il lato B di Abbey Road o l’A di Magical Mistery Tour – prese singolarmente, risultino «migliori», è l’atmosfera generale di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band a spiccare il volo, librando e levitando sopra l’intero universo pop: certo, per una valutazione definitiva la concorrenza è spietata: nel solo 1967 prima e dopo l’album dei Beatles, escono, fra gli altri), i Doors (The Doors e Strange Days), i Rolling Stones (Between the Buttons e Their Satanic Majesties Request), gli Who (The Who Sell Out), i Pink Floyd (The Piper at the Gates of Dawn), i Jefferson Airplane (Surrealistic Pillow e After Bathing at Baxter’s), i Love (Forever Changes), i Cream (Disraeli Gears), i Byrds (Younger than Yesterday), i Velvet Underground (The Velvet Underground & Nico), Eric Burdon con i nuovi Animals (Winds of Change) e Jimi Hendrix (Are You Experienced? e Axis: Bold as Love). E a livello di «non plus ultra» si sa che ad esempio le Goldberg Variations di Glenn Gould per la classica, Kind of Blue di Miles Davis per il jazz, Thriller di Michael Jackson per il pop, Live at The Apollo di James Brown per il rhythm’n’blues aprono nuovi immaginari.

Ma alla fine prevale, per riprendere un’intuizione del filosofo esistenzialista Jean-Paul Sartre l’«ésprit du temps», nella consapevolezza dei protagonisti, come ricorda oggi lo stesso Paul McCartney a proposito di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band: «L’atmosfera dell’album era in sintonia con lo spirito di quel periodo, perché noi stessi eravamo permeati da quello spirito. Non intendevamo fare di tutto per dargli quell’atmosfera, semplicemente c’eravamo dentro. E non è stato solo il clima del periodo a influenzarci; ho cercato dei riferimenti che fossero più estremi. L’atmosfera del tempo assomigliava di più ai Move o agli Status Quo o gruppi del genere. Invece oltre a tutto ciò, c’era quello spirito d’avanguardia che penso sia entrato in Pepper. Era decisamente un movimento di popolo. Voglio dire, noi non stavamo cercando di alimentare quel movimento, noi ne eravamo parte, come lo eravamo sempre stati. Ritengo che i Beatles non siano stati i leader di una generazione ma i suoi portavoce».

CONCEPT

Ancor oggi si discute accanitamente se considerare o no Sgt. Pepper un concept album: i Beatles e il loro produttore George Martin (che ne segue per intero la realizzazione) da sempre negano quest’ipotesi, perché in effetti il disco non è un’opera unitaria dal punto di vista letterario come per Tommy degli Who (1969)o S.F. Sorrow dei Pretty Things (1968,la prima in ordine di tempo), in cui un’unica vicenda è il filo conduttore a tutte le canzoni dei due album. Per Sgt. Pepper non si tratta però nemmeno di una raccolta di brani, come in fondo accadeva per i loro 33 giri precedenti ma di un lavoro compatto per almeno tre ragioni: le motivazioni ideali, l’apporto tecnologico, i climax musicali. Per sintetizzare: le motivazioni riguardano la messinscena di una fantomatica banda musicale d’altri tempi (quella appunto del «club dei cuori solitari del sergente Pepe»); la tecnologia a sua volta lavora su un missaggio che non prevede stacchi tra un brano e l’altro, in modo che l’album si percepisca quale lunga suite in due parti (le facciate del disco); il climax attiene all’esigenza di raccontare un’epoca, o ancor meglio simboleggiarla attraverso il ricorso al patchwork sonoro, così come la coeva pop art figurativa ad esempio agisce con il collage.

Dunque i Beatles concepiscono anzitutto Sgt. Pepper come lo spettacolo di un’immaginaria orchestra edoardiana del primo decennio novecentesco: il suono però viaggia attraverso il tempo fino alla stretta attualità giovanile, in particolare la cosiddetta era psichedelica; è proprio il nuovo look del gruppo sulla copertina dell’album a chiarire questo punto: i Quattro appaiono con divise militari di antica foggia dai colori vivacissimi, quasi a fondere un gusto molto inglese con lo stile neofloreale; di pari passo gli accenni alle vecchie musiche vengono riproposti in una veste sonora che sfrutta al meglio le risorse dell’elettronica. Per tali ragioni Sgt. Pepper diventa la colonna sonora ideale dei figli dei fiori e dell’Estate dell’Amore, ovverosia la filosofia hippie che in quei mesi si diffonde in tutto il mondo: anche oggi il potere evocativo dell’album va in quella direzione, a visualizzare con le note musicali un comportamento sociale diffuso tra i giovani soprattutto inglesi e americani.

Le novità di Sgt. Pepper dal punto di vista comunicativo sono molteplici a cominciare dal sovvertimento delle regole conformi alle realizzazioni di un long playing: si tratta infatti di uno dei primi dischi pop dalla copertina a libro o soffietto, ossia apribile, per riportare tutti i testi delle canzoni (altra novità) e offrire gadget relativi ai personaggi illustrati (figurine del Sergente da ritagliare). Anche il fotomontaggio nella prima di copertina è fondamentale: realizzato dal pop artist Peter Blake, mette insieme una galleria di personaggi (servendosi anche del museo delle cere di Londra) determinanti nell’immaginario collettivo della prima metà del XX secolo, con i quattro Beatles in posizione centrale.

Sul piano sonoro il mixer è il nuovo strumento di regia musicale con George Martin che diviene di fatto il quinto Beatle, responsabile delle scelte in fase di costruzione e rifinitura dell’album medesimo. Gli interventi sulle registrazioni del cantato o degli strumenti non sono più aggiustamenti o correzioni, ma riguardano la creazione del sound; fino ad allora le parti musicali vengono riportate su nastro a sole due piste, come anche certi magnetofoni familiari consentono: con Sgt. Pepper Martin sfrutta invece l’inedita chance di sovrapporre le musiche e lavorare con suoni e rumori fino a tracce a otto piste che per l’epoca è un esito prodigioso (oggi si arriva in analogico a cinquanta e con i computer in fondo quasi all’infinito); in parallelo Martin incomincia a impiegare il varispeed per variare (sempre su nastro) il tempo di un brano e il dumper che invece attenua il suono: il risultato è un effetto irriproducibile nelle performance dal vivo.

POETICA SURREALE

Detto questo, anche prese singolarmente, le canzoni di Sgt. Pepper risultano tutte significative, nonostante la loro validità finale sia pur sempre da rapportarsi alla progettualità neoavanguardista dell’intero album. Infatti, a un’analisi della lingua inglese usata, molte espressioni posseggono un gergo di proposito obsoleto, antichizzandolo secondo le regole della parlata edoardiana. Sul piano della visionarietà non mancano anche i referenti colti presi dalla letteratura, da Edward Lear a Lewis Carroll, per una complessiva vis poetica dall’estro surreale che i Beatles maturano frequentando i cineclub o le gallerie di Soho oppure leggendo i limerick o le avventure di Alice.

Dal punto di vista della composizione i brani risultano in tutto tredici, di cui però uno viene ripetuto due volte: è la cosiddetta Reprise, ossia la ripresa della title track (il pezzo che dà il titolo all’album e che lo apre). Sul piano dei contenuti la distinzioni che alcuni critici hanno operato tra le canzoni dai soggetti prossimi alla nuova cultura giovanile e quelle di argomento quotidiano viene un po’ a cadere, nel senso che la varietà sul piano sonoro, che i Beatles ereditano dal credo psichedelico, arriva ad informare anche il messaggio lirico o verbale.

Procediamo a questo punto a una breve disamina dei singoli brani. Sono tutti firmati dalla coppia Lennon-McCartney tranne Within You Without You di Harrison: tuttavia i pezzi venivano realizzati singolarmente dall’uno o dall’altro componente: possiamo riconoscerne la paternità dalla voce solista (che corrisponde ovviamente all’autore), dallo stile musicale (aggressivo Lennon, tranquillo McCartney) e da quello letterario (autoreferenziale Lennon, socialeggiante McCartney). Per quanto riguarda l’esecuzione, il canto è affidato solisticamente a Lennon in: Lucy in the Sky with Diamonds, Being for the Benefit of Mr. Kite!, Good Morning Good Morning; a McCartney: Sgt. Pepper, Getting Better, Fixing a Hole, She’s Leaving Home, When I’m Sixty-Four, Lovely Rita; a Harrison Within You Without You; a Starr: With a Little help from My Friends; oppure all’alternarsi di Lennon e McCartney (A Day in the Life) e a Lennon, McCartney, Harrison all’unisono (Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band Reprise), mentre tutti contribuiscono ai cori che accompagnano ogni brano. Le parti strumentali rimangono inalterate: a Lennon chitarra e tastiere, McCartney basso, chitarre e tastiere, Harrison chitarre, Starr percussioni. In più interviene George Martin alle tastiere e alla direzione di gruppi orchestrali composti di volta in volta da sezioni d’archi, d’ottoni, di ance e persino di strumenti asiatici. Complessivamente sono centinaia i tipi di strumenti adoperati, ai quali vanno aggiunti i rumori e gli effetti più impensati.

Sgt. Pepper viene giustamente considerato non solo il capolavoro dei Beatles ma il disco-simbolo del rock e della musica giovanile: con quest’album il quartetto compie un’ennesima piccola rivoluzione nell’evoluzione del sound popolare e giovanile, incamminandosi verso soluzioni artistiche di alto livello e di estrema originalità: per loro il luogo di esplorazione sonora diventa quindi lo studio di registrazione, dove le allora nuovissime tecnologie (oggi primitive rispetto agli ultimi ritrovati ma per la metà degli anni Sessanta davvero incredibili) vengono impiegate a fini espressivi.

In Sgt. Pepper colpisce la creazione singolarissima di un mondo musicale, in cui libertà creativa, spavalderia talentuosa vengono unite a un sincretismo estetico capace a sua volta di unire i differenti linguaggi sonori alle ultime istanze giovanili. Sgt. Pepper il tal senso è l’apice di una cultura pop in cui i Beatles si permettono di lavorare a fondo all’invenzione di un progetto unitario realizzato però con la citazione esplicita di numerose fonti sonore: su una base di pop tanto melodico quanto aggressivo scorrono infatti di volta in volta il rock and roll, il musical, il charleston, il raga indiano, la musica classica e quella neovanguardistica. Sgt. Pepper è il frutto sofferto e il risultato finale di circa settecento ore passate dai quattro in sala d’incisione. L’album alla Emi, che lo produsse, costò la faraonica cifra – per quei tempi – di venticinquemila sterline. Una cifra mai spesa prima per un long playing ma nel giro di pochi mesi sia i musicisti sia l’etichetta discografica saranno ripagati da pubblico e critica, con un successo che perdura tuttora.

2017, IL COFANETTO

E per celebrare degnamente l’evento non poteva mancare la pubblicazione di alcune «re-issue». Una versione dell’album, completamente remixata da Giles Martin – figlio dello storico produttore George – e Sam Okell, è in vendita da ieri in vari formati: un cd single, un doppio cd e vinile e un box set super deluxe con 6 cd. Nella versione doppio cd/vinile oltre al disco remixato si potrà trovare anche una «take» strumentale di Penny Lane e due «alternate versions» di Strawberry Fields Forever, tutte mai ascoltate prima, e un booklet di 50 pagine. Il corposo box set conterrà in più un libro di 144 pagine curato da Paul McCartney e Giles Martin, un cd con 33 registrazioni inedite e remixate dall’originale quattro piste, un quarto cd con le prime registrazioni mono e un blue-ray e un dvd contenenti il disco in versione audio «surround-sound» più alcuni video promozionali dell’epoca e la versione restaurata del raro documentario del 1992 The Making of Sgr. Pepper. Infine, a proposito di film, in questi giorni è nelle sale cinematografiche il documentario It Was Fifty Years Ago Today! Sgt Pepper & Beyond che racconta i Beatles in quegli anni attraverso rari filmati e interviste.