La fine della crisi è appena alle spalle e già il tempo sereno sembra terminato e nuove nuvole minacciano persino qualche temporale.

Le banche centrali in questi anni sono state decisive per arginare la crisi, nessuna altra istituzione pubblica o privata ha fatto altrettanto. Come sottolinea Dani Rodrik nel suo ultimo libro, le garanzie dello Stato attraverso la propria banca centrale si sono rivelate decisive.

L’uso della banca centrale, la sua capacità di stampar moneta in tempi di debiti sovrani crescenti è stata l’unica carta efficace. Pochi Stati hanno affrontato la crisi attraverso manovre fiscali che dilatassero i propri bilanci.

Persino la Cina è ricorsa a un indebitamento crescente per affrontare le conseguenze della crisi globale, finendo per assomigliare agli altri paesi occidentali più di quando ci si potesse attendere agli inizi degli anni Duemila.

Gli Stati uniti, che rappresentano il paese che per primo e più massicciamente ha reagito, si è permesso di tornare verso una normalizzazione delle sue politiche monetarie in anticipo. La Fed ha interrotto per prima il suo Quantitative easing, ha iniziato a non riacquistare i titoli in scadenza del suo programma di allentamento e ha avviato un percorso di rialzo dei tassi. Questo anticipo pone la banca centrale statunitense in vantaggio sul resto del mondo a fronte di un possibile ritorno della crisi. Una eventualità che molti analisti e commentatori iniziano a non scartare a priori.

Ma anche se così non fosse, il contesto stagnante globale che sta riemergendo sarebbe sufficiente a impedire un ritorno alla normalizzazione vera e propria. Cioè non è possibile riportare dentro i confini ante-crisi il modello economico senza una crescita adeguata.

Dunque, non è facile ricondurre i bilanci delle banche centrali a dimensioni antecedenti il 2008. Complessivamente i meccanismi economici non riescono a fare a meno della droga monetaria già immessa nel sistema. Tant’è che la Fed ha annunciato un rallentamento dell’aumento dei tassi d’interesse per il 2019, finendo per non escludere neppure nuovi interventi di carattere eccezionale.

La Banca centrale europea ha iniziato il percorso interventista più tardi delle altre banche e ora come per inerzia più tardi affronta le controindicazioni di tale interventismo, ma con la differenza che nel Vecchio continente la stagnazione morde il freno, specie con il rallentamento della Germania che si riverbera sui paesi intorno. Al termine del Quantitative easing, nel dicembre scorso, invece di prefigurare un percorso conseguente di rientro dal programma di acquisti di titoli fatti e uno di aumento dei tassi, si discute di come poter nuovamente intervenire. Una sorta di rimodulazione del famoso «whatever it takes» (tutto il necessario) di Mario Draghi nel 2011.

Proprio a partire dalla garanzia di riacquistare i titoli già detenuti dalla Bce e di prevedere un lungo periodo di tassi bassi. Per poi rinnovare i piani di finanziamento a tassi agevolati alle imprese (Ltro e Tltro), quelli che in piena crisi non hanno funzionato come si ipotizzava a causa della modesta richiesta sul mercato.

C’è inoltre la possibilità di rivedere al rialzo l’obiettivo dell’inflazione per giustificare il nuovo interventismo, come è già accaduto per la banca giapponese. Infine si inizia a parlare di un secondo Quantitative easing, argomento scottante che potrebbe incrinare la stessa credibilità di Francoforte ad appena pochi mesi dal termine del primo.

Il solo parlarne dimostra il grado di difficoltà in cui versa tuttora l’Europa. In questi anni è stata costruita un’impalcatura per sorreggere l’economia finanziaria più che quella reale e gli attuali meccanismi non riescono ancora a farne a meno. Nessuna prospettiva autonoma del mercato è ancora in grado di sostituirsi al sostegno monetario.