I giornalisti del quotidiano tedesco Bild hanno regalato a Mario Draghi un elmetto prussiano nel marzo 2012. Pensavano che il suo atteggiamento risoluto fosse quello di un “rigorista” che applicava il verbo monetarista indipendentemente dalla realtà economica. Sbagliavano: il presidente della Banca Centrale Europea, giunto ieri all’ultima conferenza stampa a Francoforte del suo mandato di otto anni, non è un fanatico idealista. È un realista capace di colpi di teatro ben preparati (l’ormai celebre «Whatever It Takes»: fare tutto il necessario per «salvare» l’euro nel 2012) e dotato di una notevole versatilità pragmatica. Adatta cioè la teoria della stabilità di prezzi – il mandato della Bce che Draghi ha difeso fino all’ultimo istante – alla congiuntura drammatica in cui si è trovato ad operare. È un altro modo per rispettare la teoria di chi gli ha regalato l’elmetto con strumenti eccezionali: la politica monetaria accomodante, detta «quantitative easing» («Qe») che ripartirà al ritmo di 20 miliardi di euro al mese a partire dal 1 novembre.

PER FARE IL BANCHIERE, ci vuole la politica. E una certa dose di causticità. Alla domanda se avesse rimpianti Draghi ieri ha risposto: «Mi concentro sulle cose che si possono fare, non su quelle che non possono cambiare. Non puoi cambiare la storia a meno che tu non sia uno storico». Ironia, fulminante, di un conservatore illuminato che sta nell’azione, non scrive i libri di storia. Draghi sa che la storia scriverà di lui. Il conservatore non cambia il mondo: lo tiene in ordine. Impresa difficile, tra i ripetuti e incombenti segnali di crisi, di cui Draghi ha un’acuta consapevolezza. «Porterò questa esperienza con me – ha detto – È ancora presto per dire quanto tutto questo si rifletterà internamente». È una citazione della sapienza antica e cristiana: «Non uscire fuori, rientra in te stesso: nell’interiorità dell’uomo abita la verità» ha scritto Sant’Agostino. Resta da capire come questa esperienza inciderà nella storia del presente. E, in particolare, sulla politica. Draghi non ha dato nessuna indicazione sul proprio futuro: «Non ho idee al riguardo, ma se volete più informazioni chiedete pure a mia moglie. Penso le abbia, spero che le abbia» ha detto parlando della moglie Serena. Dal primo novembre, quando lascerà il posto all’ex direttrice dell’Fmi Christine Lagarde, Draghi tornerà a Roma. Prevedibilmente continueranno le speculazioni sul futuro politico dell’economista 72enne, laureato con Federico Caffé alla Sapienza, poi al Tesoro, a Goldman Sachs e governatore della Banca d’Italia. Di ironia ne dovrà usare ancora parecchia.

RILANCIANDO il «Qe» finché «non vedremo le prospettive di inflazione convergere saldamente su un livello prossimo ma inferiore al 2%» – ora è all’1,2% in media – Draghi ha risposto in maniera pragmatica a un altro problema che ha dovuto affrontare nel corso del suo mandato. «Nel 2017 ci preparavamo a uscire dalla fase di politica monetaria ultra-accomodante ma poi è tutto cambiato» ha raccontato. Fino ad oggi è stata seguita una legge: più una banca centrale tagli i tassi d’interesse, più la gente consuma. Questo accade perché mantenere i risparmi in banca non rende. Tuttavia se i tassi sono portati sotto zero a lungo, come sta facendo la Bce, la tendenza al risparmio aumenta. «Il paradigma è cambiato» ha aggiunto Draghi perché i tassi reali di interesse resteranno bassi a lungo. Ciò gli ha imposto di riprendere in mano il bazooka e ricominciare ad alimentare un circuito che ha portato a risultati deludenti. «Mi sono sentito come uno che ha cercato di rispettare il proprio mandato», la stabilità dei prezzi. Anche ieri Draghi ha auspicato che i governi facciano la loro parte mettendo mano alla leva fiscale. Questo è il problema: la Bce non può pensare solo alla stabilità dei prezzi, mentre non tutti i governi possono usare la leva fiscale. Dipende dal loro bilancio. La Germania può investire. L’Italia, con il peso del debito che si ritrova, no. Almeno restando alla dottrina che ispira questo disegno. Le polemiche cresciute negli ultimi mesi nel board della Bce, dove cinque governatori su 19, oltre a due membri del comitato esecutivo su sei, sono contrari alla ripresa del «Qe» tra cui il potente Jens Weidmann della Bundesbank, riflettono tutte le incertezze di una Bce balcanizzata.

«ABBIAMO sempre discussioni – ha riconosciuto Draghi – tutte le istituzioni litigano quando si discute di decisioni di politica monetaria. A volte questi disaccordi sono resi pubblici, a volte non lo sono. Non è stata la prima volta. Lo prendo come una parte del dibattito». Il dibattito è senz’altro animato. Il governatore della banca centrale olandese, Klaas Knot, ha definito il nuovo «Qe» una «misura sproporzionata». Per lui l’Eurozona starebbe procedendo bene, mentre i salari sono in crescita. È la stessa posizione della Bundesbank secondo la quale la crescita rallenta, in primo luogo in Germania, ma comunque esiste. Basta cambiare latitudine e i giudizi cambiano. Draghi ha mostrato una visione più complessiva della situazione. Occupazione e salari sono indeboliti dalla guerra dei dazi che pesa sulla manifattura, frena la crescita degli investimenti. In Italia non è un rischio, è la realtà. In discussione non è lo strumento, ma i suoi risultati. È diffusa la convinzione, anche in ambiente accademico, per cui il «Qe» abbia gli effetti di una droga: alla lunga produce assuefazione. Dopo anni di acquisti di obbligazioni garantite, titoli di stato, bond emessi da enti locali e sovranazionali, obbligazioni societarie, siano rimasti pochi titoli da acquistare. A meno che non si cambino le stesse regole.

CON L’EUROZONA in rallentamento, il rischio di una recessione globale, una crescita molto diseguale dei salari , la Bce rischia di trovarsi un arsenale vuoto per affrontare la crisi strisciante. Il rischio è trovarsi in un vicolo cieco, ma con una eredità scomoda alle spalle di un banchiere che ha usato il potere performativo della parola per restituire ai mercati il loro illusorio equilibrio.