Un traveling sinuoso lascia sfilare in controtempo i palazzi dei cosiddetti beaux quartiers, va oltre il Trocadero e si arresta, come fosse una culla o un recinto incantato, proprio sotto la Torre Eiffel che già occhieggiava sullo sfondo da non meno di tre minuti: questa è la sequenza iniziale dei 400 colpi (1959), l’opera d’esordio di Francois Truffaut, ed è lì che in corsivo compare la dedica affettuosa per André Bazin scomparso appena quarantenne, di leucemia, poco prima si iniziasse la lavorazione del film. È noto che per Truffaut colui era stato un padre putativo e insieme il maestro che lo aveva tolto dalla strada e da una adolescenza sbandata suscitando quella stessa passione (assoluta, divorante, esclusiva) di cui ora I 400 colpi divenivano il segno tangibile e anzi il pegno di una giovinezza finalmente redenta. È noto altresì che Bazin aveva fondato nel ’51 i «Cahiers du cinéma», presto divenuti la tavola mosaica di ogni cinefilo, e si era fatto più o meno volontariamente mallevadore della Nouvelle Vague, dunque non solo di Truffaut (baziniano più nell’affetto e nella magnanimità che nelle procedure tecniche) ma anche di Rivette, di Chabrol, di Rohmer e innanzitutto di Jean-Luc Godard, il quale più degli altri lo avrebbe ripensato o metabolizzato al di là delle apparenze e nonostante un carattere antipode, algido e insolente.
L’impronta di Sartre
Bazin era stato un tracciante, una vera e propria meteorite le cui radiazioni si mutavano nei suoi giovani interlocutori in stimoli socratici. Provinciale di Angers, di precoci interessi letterari e filosofici (nel suo stile affilato rimane l’impronta dialettica di Sartre), egli scopre il cinema a Parigi negli anni neri dell’Occupazione e del cinema nulla gli è estraneo: le prime sale d’essai, la recensione degli spettacoli, la documentazione, allora molto scarsa, sui profili d’autore insieme con la necessaria infatuazione per tutto quanto esuli dal circuito mediamente commerciale, su tutti l’amore per Chaplin, presenza demiurgica, per i russi rivoluzionari e poi, nel dopoguerra, per gli italiani neorealisti e per i grandi giapponesi incogniti.
Riflessivo, sottile, pervaso da un cristianesimo che si direbbe creaturale, non dispone però di modelli utilizzabili: è molto sospettoso dell’engagement e ostile al cinema a tesi, a nulla infatti può servirgli, nel suo schematico contenutismo, un Georges Sadoul, futuro storico del cinema e critico militante della Humanité ai tempi del Fronte Popolare, né può accostarsi se non con la massima cautela alle pagine di Brasillach (autore con suo cognato Maurice Bardèche di una peraltro appezzata Histoire du cinéma, nel ’35) o peggio ancora di Lucien Rebatet, filonazista e feroce antisemita, che firma su «Je suis partout» splendenti recensioni cinematografiche con lo pseudonimo di Francois Vinneuil. Fatto sta che in nemmeno un quindicennio di attività, fra guerra e dopoguerra, Bazin mette insieme un corpus di scritti teorici e militanti dove è espressa non tanto una poetica quanto una precisa idea del cinema (e ne raccoglie la parte essenziale, dai primitivi quattro tomi in francese, l’antologia Che cosa è il cinema? uscita da Garzanti nel ’79 per la cura benemerita di Adriano Aprà).
Detto in una parola, per Bazin l’ontologia del cinema corrisponde alla libera esplorazione della realtà o, meglio ancora, a una lingua che traduca la realtà stilizzando anche e soprattutto quanto la realtà medesima lascerebbe allo stadio casuale e caotico. Nell’epoca che ha ricondotto al montaggio l’arte cinematografica (si pensi al Verosimile filmico del nostro grande Galvano della Volpe e del suo battistrada critico, Umberto Barbaro), Bazin opta viceversa per il combinato disposto di piano-sequenza/profondità di campo/suono in presa diretta. Paradossale posizione di uno spiritualista che di fatto è un materialista, il suo scritto teorico più celebre si intitola Per un cinema impuro e avvalora non una specificità reclusa (il découpage o cut-up, per l’appunto) ma una osmosi di ritorno con ciò che il cinema sembrava avere superato, cioè la pagina scritta, il teatro, la pittura, così concludendone al cospetto dei puristi: «Il cinema è entrato insensibilmente nell’età della sceneggiatura».
È un’idea che ricorre alla maniera di una variazione musicale nel volume postumo che Truffaut mise insieme e adesso torna in italiano, Il cinema della crudeltà (traduzione di Edoardo Bruno rivista da Alfredo Rovatti, Medusa, pp. 165, € 18.50) con una limpida introduzione di Alessandro Zaccuri, che scrive: «Anche quando si occupa a più riprese dello stesso film, Bazin non si ripete mai. Riprende il suo discorso, piuttosto, lo amplia e lo precisa. È uno scrittore di cinema perché il cinema, dal suo punto di vista, è la prosecuzione della letteratura con altri mezzi». Si tratta di una raccolta di interventi divisi per sei profili, da von Stroheim, Dreyer, Preston Sturges a Buñuel, Hitchcock e Kurosawa, tutti quanti baziniani onorari (a parte Hichtcock, che qui risulta quasi una intromissione di Truffaut perché il maestro di Angers non fu mai del tutto persuaso dal regista di Caccia al ladro e La finestra sul cortile).
Sono testi dissimili eppure l’occhio di Bazin li stabilizza in una forza centripeta. La crudeltà richiamata dal titolo, evocatrice del teatro di Artaud ma riferita a von Stroheim, è sinonimo di radicale serietà, di suprema essenzialità, e al riguardo basterebbe citare l’analisi dei volti dreyeriani sempre in primo piano nella Jeanne d’Arc (un connubio insuperato di «misticismo e realismo») o quella dei Sullivan’s Travels di Sturges, il riformatore della commedia hollywoodiana, fissato nel trapasso tra un umorismo di maniera e il sopravvenire di un’acre, imprevista, ironia.
Una via di Damasco
Ormai classiche sono invece le analisi degli autori più consanguinei, senza dubbio von Stroheim e Luis Buñuel. Il saggio inaugurale sul regista di Femmine folli e Sinfonia nuziale (definito «una via di Damasco» e «il marchese de Sade del cinema») è come una messa in pagina dello sguardo baziniano, laddove quell’autentico liberatore dello spazio cinematografico, pronubo di Jean Renoir e del Welles di Citizen Kane, è letto nella pratica di un montaggio che se da un lato sembra accettare la scansione usuale dall’altro rivela via via il ritmo e le profondità di un piano-sequenza pionieristico, virtuale o avant la lettre. Quanto a Buñuel, che ritiene il solo erede di Jean Vigo, è per lui il firmatario di Los olvidados (1951, che in un improvvido italiano venne tradotto I figli della violenza), un film del periodo messicano dell’ex surrealista, forse il film della sua vita di critico, dove la pienezza di una umanità allo stato elementare, dentro una luce bianca e tuttavia spettrale, si dà oltre le gerarchie convenute del bene e del male: «La grandezza di questo film si coglie immediatamente allorché ci si accorge immediatamente che non fa mai riferimento alle categorie morali. Nessun manicheismo nei personaggi, la loro colpevolezza è solo contingente: la fortuita congiuntura di destini che si incrociano come pugnali. È senz’altro il tratto più crudele del film avere avuto il coraggio di mostrare degli infermi senza attirare su di loro la simpatia». Evidentemente, per André Bazin il cinema o sapeva essere uno sguardo primordiale sul mondo o proprio non esisteva. Vale a dire un campo aperto della vita, non il suo specchio ustorio.