Sono in pochi in Italia ad affiancare una scrittura musicale leggera e non banale al racconto profondo della contemporaneità. I Baustelle sono fra questi, un talento per i ritornelli spregiudicati e contagiosi e la capacità di trasformare il pop in un saggio di sociologia, senza per questo risultare pedanti o verbosi. L’amore e la violenza – sesto capitolo di una carriera iniziata nel 1996 da oggi nei negozi per i tipi della WarnerMusic – gioca sin dal titolo e dalla copertina sui contrasti forti. Una cover nata da un’idea del fotografo Gianluca Moro mutuata da una scena di If, il film del 1968 di Lindsay Anderson dove il protagonista Malcolm McDowell e una cameriera si accingono a un…congresso carnale. Dodici pezzi per un lavoro decisamente maturo, libero da orpelli, musicalmente raffinato quanto libero e contagioso nella stesura delle melodie. Dentro c’è tutta l’estetica a cui ci ha abituato Francesco Bianconi che insieme a Rachele Bastreghi e Claudio Brasini forma il trio toscano sin dall’origine. Uno stile maturo e con un afflato vicino – per riferimenti – alla letteratura contemporanea. «L’amore e la violenza sono due estremi – spiega Bianconi – ma io ho sempre pensato che nel bene c’è sempre un po’ di violenza». E che ha un precedente illustre, Leonard Cohen con Songs of love and hate. «È stata l’idea di partenza del disco, canzoni d’amore in tempi di guerra».

Nelle vostra musica giocate spesso e volentieri sull’idea del contrasto, dei sapori volutamente forti. Ma l’impressione analizzando i testi è che nei confronti dei personaggi che popolano quel mondo, anche i più spregiudicati e cinici, il vostro sguardo mostra una sorta di pietas… Nel «Vangelo di Giovanni» ci sono ’profughi siriani’ e ’colpi di fucile’…

La pietas la preferisco di questi tempi. Ovvio cerchiamo di mantenere una sorta di distacco, evitando di essere troppo viscerali per non scadere nel melodramma. La pietas è la cosa più difficile da far passare, ma ci proviamo. Ed è paradossale perché spesso veniamo accusati di essere cinici: non lo siamo, come non pensiamo di essere romantici, però ci sono cose che non possono non colpirci. Tu parli giustamente di globalizzazione, un boomerang che sta tornando sui denti a noi ex colonizzatori. Io vivo a Milano e vedo con i miei occhi in queste giornate di freddo polare gente che muore sotto giacigli improvvisati a meno dieci sotto zero. Sono storie che inseriamo nelle canzoni, raccontandole in maniera distaccata ma facendo attenzione a non risultare troppo cinici. E se accade non è certamente nelle nostre intenzioni, piuttosto siamo sempre alla ricerca di uno stile personale. Ho letto un saggio sul cinismo di massa, mentre prima era la condizione di un élite ben precisa di persone oggi è una tendenza diffusa.

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«Amanda Lear», il singolo, prende il nome da un’ icona ’70, dagli anni della disco… 

È una canzone a se stante rispetto alle altre. Lui e lei stanno insieme, la donna sembra la più cinica fra i due: meglio bruciare subito che durare in eterno dice. Poi in realtà è lui a tradirla alla prima occasione. Una pura storia di vita quotidiana, di common people direi. Amanda Lear in realtà è un escamotage, un trucchetto del mestiere, un nome tronco che si inseriva perfettamente nell’economia del brano. Ma aldilà delle esigenze puramente tecniche, siamo felici di parlare di lei, una donna che non si può non adorare, estremamente intelligente.

Musicalmente «L’amore e la violenza» è ricco di riferimenti agli anni della disco music…

Per molti all’epoca era sinonimo di trash, ma secondo me lo spirito della disco era rivoluzionario quanto il punk. Perché era l’elettronica prima che venisse eseguita dalla macchine. Coincide con l’invenzione del midi, era uno stile precisissimo suonato da musicisti pazzeschi, era l’uomo che dice ’adesso suono come se fossi un robot’.. Poi è arrivato Giorgio Moroder che i sintetizzatori e le macchine li ha messi per davvero. Penso che dal 1975 al 1980 sia stata un’epoca dall’offerta molto larga di generi: avevi il progressive, la musica sperimentale e poi il punk. Ovvio che si creassero delle inevitabili collisioni e prese di posizione particolarmente accese. Un periodo di forte creatività e fantasia, sentivi intere partiture orchestrali dentro singoli brani che dovevano essere suonati ad alto volume sui dance floor. Ecco, la disco può essere letta come una metafora di felicità possibile. È difficile ma ogni tanto succede.

«Fantasma», il vostro precedente progetto era un album concept, seguiva una storia dall’inizio alla fine. Qui si ritorna a un tipo di scrittura tipico dei Baustelle, con l’utilizzo di cut up e della frammentazione…

È una scelta: noi scriviamo prima la musica e solo in un secondo momento i testi perché vogliamo avere libertà totale, non essere influenzati dalla metrica italiana, non vogliamo che le melodie risultino come impigrite. Non vogliamo avere alibi: sono i testi che si piegano alla musica, io non cambio una nota per farci entrare una parola. È un lavoro complesso, forse perché tendiamo a scrivere delle melodie non propriamente italiane, o magari perché utilizziamo molte tronche. Fantasma era un disco aperto e quindi le melodie ci consentivano di essere più liberi, in qualche modo è stato come scrivere in prosa, uno stile narrativo classico. Ora siamo tornati a un progetto fatto di ritmo e stacchi veloci, melodie killer, e va da sè che la scrittura deve essere spezzettata. Devi aiutarti risolvendo il problema delle tronche magari infilandoci dentro nomi propri, utilizzando altre lingue. Personalmente credo che il linguaggio giusto sia il cosiddetto cut up, perché ti permette di raccontare inserendo diversi elementi. Trovo sia il metodo più funzionale e meno banale di composizione nel comune linguaggio pop.

https://youtu.be/B__EbRdtDvA

Pensare che l’esistenza sia una sciocchezza «aiuta a sopravvivere», cantate in «La vita»…

Mi capita di ripetermelo la mattina quando mi sento un po’…disperato. La vita è una cosa bellissima ma è tutta estetica, è decisamente meglio pensarla come un soprammobile, se vai a cercare il senso ti ammazzi subito.
Betty descritta nell’omonima canzone, è una figura che vive di contrasti, manda messaggi al mondo dal suo profilo facebook. Ma sostanzialmente è sola…

Se ci pensi succede un po’a tutti noi, una situazione accentuata dai contesti in cui ci muoviamo o per cui ci siamo organizzati in questa parte del mondo. Comunichiamo tanto ma poi ci sentiamo in colpa per il fatto di stare troppo tempo davanti a un pc. Sono anch’io così, è che delle volte ti verrebbe voglia di ritirarti dalla pazza folla e per citare un altro pezzo ’vorrei ritirarmi dal festival ’ (Eurofestival, scritto con Simone Lenzi dei Virginiana Miller, ndr). Non è un’istigazione al suicidio, anche perché io sono d’accordo con quanto scriveva Manlio Sgalambro, questa società non merita il suicidio. Una volta poteva rappresentare anche un gesto nobile, ma ora per cosa ti vuoi suicidare?