La cultura non coltiva più le anime nella prospettiva di un miglioramento continuo della loro vita, vendendo così meno al «carattere missionario» che l’illuminismo gli assegnava nella costruzione della nazione e nel superamento delle convenzioni sociali del passato; ma non serve neppure a riprodurre le disuguaglianze di classe che innervano le società capitaliste, come attestava la funzione «omeostatica» svolta, nella tarda modernità, dall’industria culturale, dalla scuola e dall’università. Nell’epoca attuale la cultura deve soddisfare tutti i gusti possibili, le differenze negli stili di vita, nelle identità. Deve quindi sedurre la moltitudine di cittadini-consumatori che, come uno sciame, si muove secondo geometrie non lineari nel mutevole palcoscenico della «modernità liquida». A Zygmunt Bauman non manca la capacità di catturare l’attenzione nel suo ormai trentennale attraversamento delle società contemporanee. E questo suo nuovo saggio – Per tutti i gusti (Laterza) – non fa che confermare tale capacità, riuscendo al tempo stesso a ribadire alcune coordinate della sua erranza. In primo luogo, la centralità del consumo nelle forme di vita attuali, anche quando si tratta di parlare di cultura, che può essere spiegata a partire dalle dinamiche che riguardano la moda, che cambia di stagione in stagione in un perpetuo e seduttivo ritorno del sempre uguale.

Un libro, un film sono pensati per affascinare una molteplicità di pubblici dai confini porosi. Il consumatore può amare, contemporaneamente, la musica classica e il punk; il noir e la teologia medievale; il trash e le miniature rinascimentali, la filosofia strutturalista e i fenomeni virali della televisione, in una successione indistinta di generi che funzionano come lo specchio dove si riflettono le identità patchwork individuali e collettive. I manufatti culturali devono cioè mutare di stagione in stagione al pari dei vestiti più o meno griffati.

Questa trasformazione della cultura in strumento seduttivo ha sì un fine manipolatorio, ma non in funzione di un progetto di società, bensì solo per vendere le merci che soddisfano un desiderio di libertà radicale, che ha tratti in comune con l’utopia, e tuttavia assume la forma stabile della fuga dal principio di reciprocità e relazione sociale, all’interno cioè di uno dispositivo dominante incardinato sulla figura dell’individuo proprietario. La cultura non indica dunque più la rotta verso il regno della ragione (o della libertà dalla necessità), né svolge il ruolo di guardiana dell’ordine costituito, ma neppure è il barometro che segnala bellezza e volgarità, buono o cattivo gusto, come postulavano i custodi di una primitiva concezione estetica dei manufatti culturali. Non è dunque un’arma nelle mani delle élite, bensì è una merce per un pubblico di massa. Tutto va bene, infatti, se incontra al mercato una domanda da soddisfare.

Di questa acquisita mercificazione della cultura Bauman non fa mistero, anche se nelle pagine di questo saggio non ci sono tracce di come viene organizzata la sua produzione. Dunque nessuna immagine potente al pari di quella usata da Max Horkheimer e Theodor W. Adorno ne La dialettica dell’illuminismo che, per parlare di Hollywood, descrivono la successione di schiene ricurve sulle macchine da scrivere di scrittori, filosofi, scienziati alle prese con le sceneggiature da consegnare per il media che metteva e mette sullo schermo il desiderio di evasione dalla miseria del presente. E se quella immagine avrebbe dovuto attestare la riduzione dell’intellettuale a produttore salariato dell’industria culturale, nulla viene detto da Bauman su come quel produttore di segni, persa l’aura del depositario della verità, sia ormai un precario preposto a soddisfare i gusti del pubblico.

Politiche del riconoscimento

C’è però un passaggio sulla «modernità liquida» che serve a Bauman per introdurre il tema dello «stato culturale», cioè di come lo Stato nazionale attivi la produzione culturale al fine di sviluppare forme di governance della realtà sociale mutevole nel tempo e nello spazio. La modernità liquida non significa assenza di norme e istituzioni, bensì è una realtà che vede, in tendenza, la presenza di istituzioni e norme definite just in time. Allo stesso modo lo «stato culturale» è un’espressione per indicare quell’esaltazione delle differenze che caratterizzano le società capitalistiche contemporanee. Le identità, e la cultura, prodotte e elaborate da gruppi sociali o da singoli marcano la differenza rispetto ad altri gruppi sociali e singoli. Lo «stato culturale» favorisce una politica del riconoscimento che prende congedo dalle aporie del multiculturalismo – la differenza inscritta tuttavia dentro l’orizzonte universalista dei diritti – e apre la strada a un multicomunitarismo dove la differenza è foriera appunto di deriva identitaria sempre sul punto di trasformarsi, viene da aggiungere, in una situazione di guerra civile molecolare. La cultura della differenza è, chiosando il filosofo americano Fredric Jameson , la logica culturale del capitalismo che ha nei richiami ai diritti umani l’antidoto a un distruttivo multicomunitarismo basato su una velenosa e feroce politica del riconoscimento. I tanti festival culturali, secondo una tassonomia disciplinare e di generi, servono così a creare lo spazio affinché la differenza non alzi mura e definisca confini la cui violazione è da respingere con le armi.

Lo Stato culturale è quindi da considerarsi come il sostituto di quella tendenza missionaria che il secolo dei Lumi assegnava alla cultura. Soltanto che è un missionario bizzarro. Poco rigore, austerità, riservatezza, bensì una miscellanea di glamour, seduzione, leggerezza e trasgressione. Perché il suo compito è soddisfare tutti i gusti, senza che questo metta in pericolo l’ordine costituito.