Zygmunt Bauman è stata una delle figure più rappresentative della sociologia mondiale in questo primo ventennio del Duemila. Quella metafora della liquidità con la quale ha saputo leggere con acutezza e profondità le molteplici conseguenze della globalizzazione sulle persone e sulle società, lo ha reso famoso presso un pubblico vastissimo. Bauman ha così mostrato che il compito di quei nuovi «intellettuali interpreti» (soprattutto i sociologi) di cui aveva analizzato ascesa e persino necessità già nel 1987, è innanzitutto fornire grandi e comprensibili quadri di lettura di una realtà che, altrimenti, rischia nella contemporaneità di essere oscura e completamente sfuggente.

NONOSTANTE QUESTI indiscutibili meriti o forse a causa di essi, l’opera di Bauman – in parte come accadde in vita a Georg Simmel, sua grande fonte d’ispirazione – ha sempre diviso profondamente la comunità scientifica che in buona sostanza gli ha rimproverato una certa debolezza metodologica, la mancata produzione di una teoria organica e lo stile eccessivamente divulgativo. Peccato mortale in un’accademia divisa tra autoreferenzialità e iper-specializzazione, non in grado di cogliere nel suo insieme la complessità sociale. A questi attacchi si uniscono oggi quelli più volgari e poco documentati di alcuni neo-sovranisti che lo accusano di essere stato, addirittura, un apologeta della globalizzazione e della postmodernità. Quando, al contrario, Bauman ne è stato uno dei più attenti critici senza rinunciare, innanzitutto, a descrivere la realtà così come si presenta.

Che ne sarà quindi dell’eredità di Bauman? A questa domanda prova a dare una risposta il numero monografico della rivista Sicurezza e Scienze Sociali (edita da Franco Angeli), curata da Riccardo Mazzeo, e significativamente intitolato Zygmunt Bauman. I cancelli dell’acqua. Questa opera si segnala innanzitutto perché va ad arricchire una paradossalmente scarsa produzione critica, sia in Italia sia all’estero, sull’opera di Bauman.
Il secondo merito di questo numero monografico è quello di riunire su una molteplicità di aspetti dell’opera del sociologo polacco – dalla Shoah al lavoro, dalla globalizzazione agli intellettuali – le riflessioni di alcuni dei più autorevoli studiosi italiani di scienze sociali – da Mauro Magatti a Vanni Codeluppi – molti dei quali, come Benedetto Vecchi, hanno conosciuto e lavorato con lo stesso Bauman. Allo stesso tempo, significativa è la presenza dei contributi di più giovani ma non meno acuti studiosi come Sabina Curti o Vincenzo Romania. Tre sono i punti fondamentali che, come un filo rosso, attraversano tutti i saggi raccolti nella rivista. Il primo concerne il permanere o meno di una condizione di modernità liquida nelle società contemporanee, soprattutto alla luce di quello che è il tema generale della rivista: il rapporto tra sicurezza e socialità.

GIÀ BAUMAN, soprattutto nella sua ultima opera, pubblicata postuma e dedicata alle «retrotopie», sottolineava l’ingresso delle società occidentali nella gramsciana fase dell’interregno. Una sorta di caotico guado nel quale il vecchio (in questo caso rappresentato dalla modernità liquida, cioè dalla fase più dinamica e dirompente della globalizzazione neo-liberale) si destruttura, e il nuovo ancora non è nato. I saggi contenuti nel numero mostrano come questo stato di crisi cronica sia dovuto, soprattutto, a un approfondimento delle condizioni della modernità liquida ribadendo così, con il dovuto senso critico, il permanere della fecondità delle analisi di Bauman.

LA SECONDA QUESTIONE attiene all’impianto metodologico dell’opera del sociologo polacco: proprio quella che viene spesso indicata come una debolezza è invece, come argomenta Magatti, una forza dell’opera di Bauman; che ci sollecita continuamente a essere curiosi, rabdomanti del mutamento, e orientati a fornire ad un pubblico più vasto gli strumenti per comprendersi e comprendere il mondo circostante. Una postura intellettuale di tipo critico del tutto peculiare e che, come argomenta Luca Corchia nel suo bel saggio, divide profondamente Bauman da Habermas; canonicamente considerato l’intellettuale critico (e classico) per eccellenza.

INFINE, IL TERZO FILO rosso è rintracciabile nella questione del rapporto tra Bauman, la modernità e la società keynesiano-fordista: qui emerge quella centralità dell’ambivalenza come categoria interpretativa baumaniana che, da una parte rivela l’esito totalitario che la modernità ha portato con sé; e, dall’altra, l’importanza di sicurezze e garanzie istituzionalizzate, nonché delle politiche redistributive, nello stabilizzare la vita sociale e individuale di fronte all’incontenibile dinamismo dell’economia. Un tema di nuovo centrale per determinare, in positivo o in negativo, l’approdo al quale ci condurrà la lunga fase di interregno nel quale siamo immersi.