Questo nuovo libro di Zygmunt Bauman evoca, involontariamente, il romanzo di Patricia Highsmith The Talented Mr Ripley, trasposto in film alla fine del secolo scorso da Anthony Minghella e interpretato da Matt Damon, in cui un giovane talentuoso ma povero, Tom Ripley, preferisce assumere regolarmente l’identità di qualcun altro piuttosto che indossare i panni della propria nullità. Scrive Bauman ne Per tutti i gusti (Laterza, pp. 148, euro 14): «Il modello personale nella ricerca dell’identità diviene quello del camaleonte. O del leggendario Prometeo, la cui mitica abilità di trasformarsi a piacimento in qualsiasi altro essere o di assumere forme a caso, le più diverse dall’originale, era così ammirata nel Rinascimento da Pico della Mirandola».

Ma perché la personalità prevalente nel mondo occidentale sta diventando quella dello Zelig, del trasformista, del pattinatore su ghiaccio in trasformazione e in fuga perenni? Bauman ha parlato in altra sede della trasformazione subita dall’utopia: prima dell’avvento della modernità liquida l’utopia era incarnata da un’aspirazione condivisa, da realizzarsi attraverso un progetto condiviso, di miglioramento del mondo. Dall’età dell’oro di Ovidio che rivolgeva lo sguardo a un glorioso tempo passato traboccante di armonia, all’Eden prefigurato dalla Bibbia e proiettato in un tempo futuro dopo la morte terrena, dall’isola che non c’è del Morus alla Rivoluzione americana, a quella francese, alle palingenesi mondana di poter realizzare giustizia e armonia già in questo mondo, una costante dell’utopia era stata quella di riguardare tutti, di trascendere i confini della propria individualità. Ma nel mondo liquido-moderno l’utopia si è privatizzata, si è ristretta fino a comprendere nulla di più che un posticino tranquillo per se stessi, vantaggi personali, la propria autocelebrazione, la propria fortuna e, se c’è spazio a sufficienza, per le persone più amate.

Costretti a convivere

Le sollecitazioni e le minacce del mondo contemporaneo tuttavia premono, piombano l’orizzonte, caricano sulle spalle di ciascuno di noi la responsabilità di problemi globali troppo smisurati per essere risolti, e allora ci si trincera in spazi pseudoidentitari come le nazioni più avverse all’apertura che circondano i confini di filo spinato o di muri eretti in tutta fretta, oppure si fugge, ci si sottrae continuamente come Tom Ripley, che sorride agli altri ma quando si addormenta è tormentato da incubi orribili. «Da un punto di vista semantico, la fuga è il contrario dell’utopia; ma dal punto di vista psicologico, si rivela essere di essa l’unico sostituto oggi disponibile: possiamo dire che è la nuova interpretazione dell’utopia, aggiornata e adattata alle esigenze della nostra società deregolata e personalizzata di consumatori».

Oggi viviamo una fase caratterizzata dalle diaspore, dalla migrazione e dalla fuga di persone che, nel modello imperante del multiculturalismo, si trovano obtorto collo a convivere scontrandosi mentre i detentori del potere globale gongolano. Il «divide et impera» funzionava già ai tempi degli antichi Romani, ma adesso suscita raccapriccio assistere alla velenosa maestria con cui la predisposizione di condizioni tali da accendere continui focolai di rivalità fra chi vive gomito a gomito e non si sopporta sia un rimedio potentissimo per distrarre l’attenzione della gente dai veri responsabili che risultano sempre meno identificabili, riparati come sono dallo spazio dei flussi in cui si muovono repentini, remoti, imprendibili. Gli intellettuali, un tempo connotati innanzitutto dal coraggio e dalla capacità di impegno che sapevano profondere nel tentativo di alimentare cambiamenti sociali positivi, si sono specializzati nel perseguimento del successo personale e «le classi colte del nostro tempo hanno poco o niente da dire riguardo alla forma preferibile per la condizione umana. Per questa ragione si rifugiano nel multiculturalismo, che è un’ideologia della fine dell’ideologia».

Il fatto è che il multiculturalismo non favorisce affatto l’interscambio quanto piuttosto il sospetto. Nella stessa via albergano etnie che si guardano con reciproca invidia e disprezzo, pronte a impugnare il coltello, circoscrivendo le responsabilità di condizioni di vita sempre più difficili all’orizzonte del proprio quartiere, e la stessa cosa avviene negli autoctoni rispetto agli stranieri ritenuti responsabili della penuria di lavoro oltreché vissuti come barbari sporchi, «strani», sicuramente pericolosi e malvagi.

Bauman guarda all’Europa come a un promettente laboratorio e cita George Steiner: «il genio dell’Europa sta in ciò che William Blake avrebbe definito la sacralità del minimo particolare. È quello della diversità linguistica, culturale e sociale, di un ricco mosaico che rende una minuscola distanza, una ventina di chilometri, una divisione tra mondi (…) In effetti l’Europa perirà se non si batte per le sue lingue, le sue tradizioni locali e le sue autonomie. Se dimentica che Dio sta nei dettagli». Bauman lamenta però quello spreco di saperi e di stimoli che imporrebbe, data la compresenza di almeno ventitré lingue ufficiali europee, l’uso dei lauti fondi dell’Unione europea per tradurre gli scritti più significativi prodotti nei Paesi meno privilegiati, offrendo così a tutti una «Biblioteca della Cultura Europea». Perché al di là delle false credenze sul «prossimo» e alla demonizzazione insensata dei propri vicini, abbiamo in comune numerosissimi aspetti, le stesse ansie, gli stessi amori, lo stesso nemico vampiresco, e se riuscissimo a coltivare, se non a realizzare, la «fusione degli orizzonti» preconizzata da Gadamer, smetteremmo di essere orde di Tom Ripley che si considerano altrettante nullità e che per sentirsi vivi e degni di considerazione devono succhiare il sangue di qualcun altro e continuare a fuggire, ciascuno prigioniero del proprio incubo.