Nel primo Manifesto del surrealismo, del 1924, la celebre litania dei precursori non poteva non evocare Baudelaire: «surrealista nella morale»; ma una più evidente affinità elettiva dettava a Breton il riconoscimento nei confronti di Rimbaud: «surrealista nella pratica della vita e altrove».

Il filosofo Benjamin Fondane, ebreo di origine romena a Parigi dal 1923, legato negli anni Venti al gruppo surrealista, da cui presto tuttavia prende le distanze, dopo aver scritto un libro sul poeta-canaglia (Rimbaud le voyou, 1933), dedica gli ultimi anni della sua breve esistenza – morirà a Auschwitz nell’ottobre del ’44 – alla stesura di un’importante monografia, oggi per la prima volta tradotta in italiano con il titolo Baudelaire e l’esperienza dell’abisso (traduzione e cura di Luca Orlandini, Aragno editore, pp. 454, euro 25,00), che dei Fiori del male dà una lettura intensamente empatica, improntata a un disperato vitalismo.

Contro il Baudelaire formalista di Valéry, precursore di Mallarmé, sublime facitore di armonici alessandrini e superiore intelligenza critica, Fondane rivendica l’ineludibile centralità del magma esistenziale, dell’esperienza estrema del male, della frequentazione dell’Abisso; e afferma la priorità dello «spleen» sull’«ideale», del «selvaggio» sul letterato, contrapponendo al canone al tempo ancora dominante dell’art pour l’art simbolista e del ritorno all’ordine classicista una diversa genealogia della poesia francese del Novecento, in cui Rimbaud è il solo autentico discepolo di Baudelaire e i surrealisti appaiono implicitamente come «gli orribili lavoratori» previsti dalla Lettera del veggente e invitati a proseguirne l’opera. Il libro esce postumo nel 1947: l’anno stesso del Baudelaire di Sartre; e il confronto con l’arida requisitoria del più fortunato filosofo esistenzialista basterebbe a stabilirne il valore.

È tuttavia un’opera in parte incompiuta, e si vede: frequenti le ridondanze e le ripetizioni, a volte lasco il legame fra i capitoli, numerosi gli spunti solo abbozzati. Ma proprio l’imprevedibile discontinuità del dettato sconsiglia di cedere alla tentazione di una lettura antologica: nel Baudelaire – questo forse, oggi, il motivo più convincente, e emozionante, del suo fascino – urge un’impazienza testamentaria di dire tutto, che regala pagine illuminanti su Hugo (odiosamato padre poetico per Baudelaire, «surrealista quando non è stupido» per Breton, e per Fondane incarnazione di quella religione del dovere e del progresso che è l’idolo polemico di tutto il libro), o su Swift, o perfino su Dante (in contrapposizione con la lettura di T.S. Eliot); traccia paralleli né scontati né peregrini fra Baudelaire, Dostoevskij e Nietzsche; ingaggia una polemica insistita con la psicanalisi, che non nasconde tuttavia profonde consonanze con il pensiero freudiano. In definitiva, offre un’estetica in nuce: in cui metro di ogni valore è «la profondità dell’esperienza vissuta»; in cui proprium dell’arte sono la capacità di «passare attraverso l’inferno, la nausea, l’orrore» e il coraggio di «sfidare le leggi fondamentali dell’essere o il principio di non contraddizione»; e dalla letteratura è invocata la «possibilità di una liberazione da una realtà senza vie d’uscita». Una realtà che rinvia a Kafka (Relazione per un’accademica), ma non può non caricarsi, nella Parigi occupata del 1943, di tragiche risonanze autobiografiche.

Fondane è filosofo dell’esistenza e dell’io: ha in sospetto ogni universale, ogni coazione all’Idea che cancelli l’individualità. Se in una vertiginosa digressione ripercorre per sommi capi l’opposizione fra universale e individuo nella tradizione filosofica occidentale, è per mostrare come il misticismo masochista di Baudelaire, che si inchina alla tirannia dell’ideale e si offre al carnefice, paradossalmente riaffermi la priorità inconculcabile dell’io contingente, del corpo, di una sessualità degradata; se si addentra nelle sottigliezze della teologia del male, è per spiegare come anche nel vizio il baudelairiano gusto dell’infinito possa istituire «una sorta di perfezione metafisica», unica alternativa praticabile essendo, nel suo universo poetico, quella fra l’inferno e il nulla.

Ma esaltando nei Fiori del male il polo negativo della metafora, Fondane non rovescia soltanto la lettura superciliosa di un Valéry, con ovvie conseguenze sul canone: non Il balcone o Raccoglimento, ma L’abisso o L’amore del nulla appaiono come i testi più significativi; fa anche il contropelo a innumerevoli affermazioni dello stesso Baudelaire, indirizzate a svalutare tutto ciò che è «naturale», e a esaltare di contro la bellezza armonica dell’arte (e di ogni artificio), la virtù del santo e dell’eroe (o, come ripiego, l’autocontrollo del dandy).

Che l’opera critica di Baudelaire altro non sia che un sontuoso apparato di denegazione, un monumentale esorcismo contro l’Abisso – immagine in cui si riassumono l’inclinazione al vizio, la violenza della voluntas schopenhaueriana, l’assoluto di un’esperienza bruciante – è tesi estrema e discutibile, ma non priva di riscontri, se è vero che già nel Salon del 1846 il giovane critico d’arte, futuro autore di Spleen e ideale, poteva chiedersi, con folgorante lucidità: «se si trovasse l’ideale, questa cosa assurda, questa cosa impossibile, che ce ne faremmo del nostro io?».

E tuttavia la lettura esistenziale – non meno di quella formalista, o di quella marxista, allegorico-metropolitana, che negli stessi anni stava elaborando Walter Benjamin, ponendo al centro del canone i Quadri parigini – è sempre a rischio di unilaterali forzature: nella sua ansia di verità, sfiora il riduzionismo biografico; restituisce I fiori del male a un romanticismo nero che non fa giustizia alla loro modernità; e insomma ne limita la complessità. Del resto, anche le lettere disperate e autodenigratorie alla madre, in cui Fondane crede di trovare il Baudelaire più autentico, per quanto intense e commoventi, non sono a tratti meno retoricamente costruite, meno intessute di strategiche menzogne (o mezze verità), degli scritti destinati alla pubblicazione e tacciati di sia pure involontaria ipocrisia.

Alcuni di questi limiti sono evidenti anche nei saggi di uno degli interpreti di Baudelaire oggi più accreditati, soprattutto in Francia: il poeta Yves Bonnefoy, che al libro di Fondane deve probabilmente più di quanto dichiari.

Anche per questo bisogna essere grati a Nino Aragno, non nuovo a intelligenti repêchages; ed è davvero un peccato che un’adeguata preparazione linguistica e storico-critica non sempre sorregga lo zelo del curatore – Luca Orlandini vota al Baudelaire di Fondane un autentico culto, di cui è testimonianza, sempre per Aragno, anche un corposo volume di arruffate glosse (La vita involontaria, pp. 330, euro 20,00) –, sicché all’eleganza della veste editoriale non corrisponde, come sarebbe lecito attendersi, un testo filologicamente attendibile: troppi i refusi; spesso sciatta e a tratti imprecisa la traduzione, punteggiata di fastidiosi calchi dal francese; largamente incompleto il pur utile indice delle citazioni, che correda il saggio di alcuni dei riferimenti bibliografici omessi dall’autore; stupefacente la scelta della frase, siglata L.O., esibita in epigrafe alla breve Nota del curatore. A chi legge il francese, conviene senz’altro riscoprire il libro di Fondane nella più recente edizione in lingua originale, quella uscita a Bruxelles per le Éditions Complexe nel 1994.