Grazie alla forza d’inerzia, l’Unione europea, districandosi in una situazione di sostanziale caos, si accinge ad entrare nell’anno elettorale. Chiusa la partita truccata con Roma all’insegna delle finzioni rese possibili dalla vacuità del programma di governo gialloverde, si tratta ora di tendere la mano allo screditato Emmanuel Macron. In una intervista allo Spiegel on line il ministro dell’economia tedesco Peter Altmaier, uno dei più stretti collaboratori di Merkel, sostiene che bisogna aiutare a tutti i costi il presidente francese a mandare avanti le sue riforme, cercando di accontentare anche i gilet gialli che rischiano di mandare tutto in malora.

PARIGI SFORERÀ LE REGOLE di bilancio? Si vedrà nel tempo, sostiene Altmaier, poiché se Parigi promette crescita è comunque più credibile di altri e senza la Francia, paese nel quale le rivoluzioni si sono fatte davvero e minacciate ripetutamente, l’Europa non è nemmeno pensabile. Le insorgenze sul confine occidentale vanno dunque prese sul serio e bisogna scendere a patti prima che sia troppo tardi. Parigi non è Atene che può bruciare per mesi senza intossicare i commissari europei né le sinistre esangui del Vecchio continente. Così la Germania mette le cose in chiaro: che i falchi del nord e dell’est tengano a freno i loro malumori, perché non bastano i conti a posto per contare davvero.

INTANTO OLTRE MANICA regna il caos. Londra lavora alacremente a misure e piani di emergenza da day after in vista di una rottura senza accordo con Bruxelles. Non è chiaro se per spaventare l’opinione pubblica e i parlamentari, inducendoli ad approvare gli accordi raggiunti dalla premier May, o perché tema davvero questa eventualità. All’Unione europea non resta che attendere gli eventi, dopo avere concesso alla Gran Bretagna ogni favore possibile. Ma non vi è dubbio che tra i britannici, salvo quelli completamente accecati dalle nostalgie imperiali, il distacco dall’Europa provochi un senso di vertigine, una sorta di paura del vuoto e una profonda divisione. Il Regno unito ha il fiato sospeso.

Sul fronte orientale, se la Polonia rallenta il processo di asservimento della magistratura al potere politico, in Ungheria un movimento consistente e duraturo si batte quotidianamente in piazza contro la riforma del lavoro voluta da Victor Orbán che moltiplica a dismisura gli straordinari a fronte di una carenza strutturale di mano d’opera (bianca, cattolica e nazionale, l’unica presa in considerazione). Nonché contro l’involuzione autoritaria del paese. Non hanno ancora la forza dei gilet gialli e si trovano di fronte un governo che li considera semplicemente agenti provocatori al servizio di George Soros. Ci sono tutti gli ingredienti di una possibile brutale repressione. Circostanza di fronte alla quale l’Unione europea si rivelerà ancora una volta timida e impotente nei confronti del dittatore di Budapest.

TUTTO QUESTO QUADRO, dall’Italia alla Francia, dalla Gran Bretagna ai paesi dell’Europa orientale indica una battuta di arresto della demagogia antieuropeista in crisi di credito.

Il sospetto che fuori dall’Unione si possa finire con lo stare peggio è decisamente generalizzato fra i cittadini europei. Come starci dentro è però tutt’altro conto e assai controverso. Ma comincia ad apparire chiaro ai più come le rigidità antisociali del sistema europeo dipendano assai meno da un insieme di regole fisse che non dal braccio di ferro continuo tra egoismi nazionali e dai rapporti di forza tra gli stati che ne forzano ripetutamente l’interpretazione, stabilendo diversi pesi e diverse misure.

I gilet gialli, sostiene Peter Altmaier nell’intervista a Spiegel, sarebbero qualcosa di nuovo e di diverso rispetto ai cosiddetti «populismi» che sono andati affermandosi in Europa negli ultimi anni. Si tratterebbe, secondo il ministro tedesco, di «un fenomeno di ripoliticizzazione delle nostre società» con il quale confrontarsi seriamente, ma senza compromettere i principi dell’economia di mercato neoliberale.

SE IL DISCORSO NAZIONALISTA, più o meno mascherato, imputa essenzialmente all’Europa quella sottrazione di risorse che impedirebbe alle sovranità nazionali di soddisfare la domanda sociale, i nuovi movimenti prendono di mira le diseguaglianze e i privilegi interni alle rispettive società.

Chiedono patrimoniali e progressività fiscale. Reintroducono insomma quel segno di contrapposizione che un tempo si diceva di classe. Certo, l’Unione europea è impegnata nel salvaguardare i rapporti sociali esistenti e nel pilotare le politiche economiche sulla via della competitività, dell’accumulazione e dell’affidabilità finanziaria, ma non è questo il fronte dello scontro con i «populismi», soprattutto con quelli che sono arrivati al governo. La vicenda della legge di bilancio italiana è da questo punto di vista esemplare.

Le sue sempre più striminzite misure di bandiera sono piantate su un terreno squisitamente neoliberista. Con in più il tocco, questo sì tutto italico, della irrinunciabile difesa degli interessi corporativi.