E’ buona notizia per i palestinesi in un clima sempre più cupo, presagio di un futuro molto incerto. L’Unesco ha concesso lo status di patrimonio dell’umanità alle terrazze antiche e ai sistemi di irrigazione di Battir, uno stupendo villaggio palestinese a ridosso di Betlemme, che sono sotto minaccia di distruzione da parte del Muro. Certo, le autorità israeliane, grazie a sentenze di una giustizia troppo piegata alle “esigenze di sicurezza” vere e presunte, potrebbero infischiarsene e dare il via libera al completamento della barriera, secondo i piani approvati. Tuttavia il passo fatto dall’Unesco pone Israele di fronte alla scelta di compiere o evitare una pesante violazione del diritto internazionale.

 

La gente di Battir festeggia nelle stesse ore in cui si valuta la portata della decisione presa dalla Chiesa presbiteriana americana che ha annunciato di voler vendere le proprie partecipazioni, per 21 milioni di dollari, nella Catepillar che costruisce i giganteschi bulldozer usati dall’esercito israeliano in Cisgiordania, e in altre due multinazionali, la Motorola Solutions e la Hewlett-Packard, che forniscono equipaggiamenti elettronici e per le comunicazioni alle forze di occupazione.

 

Battir è un gioello di storia e natura, situato a cavallo della linea di armistizio (linea verde). Durante la guerra del 1948-49 non fu occupato e si ritrovò, assieme alle località vicine, nella “terra di nessuno”, tra le postazioni israeliane e quelle dell’esercito giordano che aveva preso il controllo della Cisgiordania e di Gerusalemme Est. In seguito giunse il via libera del re giordano Abdullah al passaggio a Israele di tutta l’area rimasta in sospeso. Sessanta anni dopo Battir ricade per 2/3 in Cisgiordania e per 1/3 sul versante controllato da Israele. A minacciare i suoi antichi sistemi di irrigazione, che risalgono a 2500 anni fa, ora c’è il Muro che si insinua in profondità nella Cisgiordania occupata. Il ministero della difesa israeliano esclude riflessi significativi sul sistema di irrigazione e smentisce che il Muro impedirà ai ragazzi di Battir l’accesso alla scuola come denunciano gli abitanti. «Il percorso (del Muro) è in una zona dove l’impatto sulle terrazze (agricole) sarà più limitato, solo la prima fila di terrazze sarà parzialmente interessata», spiegarono nei mesi scorsi le autorità militari. Non è questa l’opinione di decine di esperti che fanno riferimento all’Unesco che hanno proclamato Battir «un gioiello archeologico e culturale», sottolineando che la «terra di olivi e viti» è «diventata vulnerabile sotto l’impatto di trasformazioni socioculturali e geopolitiche che potrebbero portare danni irreversibili».

 

Battir ha vinto una battaglia che dovrebbe favorire anche la lotta che portano avanti altri centri della zona, come Cremisan e Beit Jala, ugualmente minacciati dal Muro. Ma è solo una vittoria. La barriera incombe ancora a ridosso di centri abitati e di terreni agricoli. «La costruzione di questa sezione di Muro significherebbe un nuovo passo avanti nelle politiche israeliane di annessione di terra e di apartheid e la distruzione di un patrimonio naturale e culturale. A questo si aggiungerebbe un’ulteriore ghettizzazione di Battir, da decenni oggetto di politiche coloniali che hanno trasformato il villaggio in un’enclave», spiega Nicola Perugini, docente di antropologia all’al Quds Bard Honors College e membro del team Unesco che ha sviluppato un piano di conservazione per Battir.

 

Se a Battir si sorride, almeno per un giorno, nel resto della Cisgiordania regna la preoccupazione. Si stanno rivelando una punizione collettiva nei confronti di centinaia di migliaia di palestinesi, le ricerche dei tre ragazzi israeliani, scomparsi la scorsa settimana nei pressi della colonia ebraica di Alon Shvut e che le autorità israeliane ritengono nelle mani di una cellula armata di Hamas. Ai tre giovani uccisi nei giorni scorsi dai soldati, i palestinesi aggiungono una quarta vittima. Si tratta di un anziano, Ali Abdel Jarir, colpito da un infarto durante un blitz dei militari nel villaggio di Haris e morto per mancanza di cure immediate. I soldati, denuncia la famiglia, hanno impedito il suo trasporto in ospedale per “ragioni di sicurezza”.