Il primo week end è finito con la sua folla dentro e intorno alle sale, la frenesia del mercato, la corsa a prenotare i biglietti – c’è chi dorme la mattina presto davanti al bancone nella hall del centro commerciale. Che festival è stato finora l’ultima Berlinale diretta da Dieter Kosslick? Più di qualcuno alza gli occhi al cielo, specie davanti al concorso, che in effetti non è fortissimo, finora una manciata di titoli, ma non è poi cosi diverso altrove- pensiamo all’ ultima edizione del Festival di Cannes, dove i colpi di fulmine sono stati rari. Il problema della Berlinale è un po’ quello di rimanere soffocata da sé stessa, dall’(auto)imposizione di un tema «forte», «politico» che ogni film deve contenere – il vecchio «contenuto» – non di per sé però (anzi quasi mai) garanzia di qualità cinematografica.

OGGI sarà il giorno di La paranza dei bambini, il nuovo film di Claudio Giovannesi (dal romanzo di Roberto Saviano anche sceneggiatore), quest’anno a parte il Forum il cinema italiano ha una bella presenza, con quattro titoli oltre a questo – Selfie di Agostino Ferrente, Dafne di Federico Bondi, Il corpo della sposa di Michela Occhipinti e Normal di Adele Tulli – che mostrano tendenze di lavoro diversificate nel cinema nostrano, anche produttivamente, con nomi nuovi rispetto a quelli già scoperti a livello internazionale.

SULLA «PAGELLA» di «Screen International», votata da un piccolo numero di critici presenti al Festival, il punteggio più alto della competizione va ex-aequo a due film: Ondog di Wang Quan’an e Dio esiste, il suo nome è Petrunija di Teona Strugar Mitevska, con in comune un personaggio femminile la cui presenza interroga – e scompiglia – la realtà intorno. Wang Quan’an, cinese, diplomato all’Accademia di cinema di Pechino, ha iniziato alla Berlinale, nel senso che il suo film di esordio, Lunar Eclipse (1999) è stato presentato al Forum prima di fare il giro del mondo – ed essere molto premiato – e nel 2007 con Il matrimonio di Tuya ha vinto l’Orso d’oro. Ondog, girato nella steppa mongola -in Mongolia era ambientato anche Il matrimonio di Tuya – è un western, pure se inizia come un giallo, nel senso che il paesaggio e il suo orizzonte ne sono i protagonisti come i personaggi, e . anzi determinano le loro azioni e il loro stato d’animo, quanto accade e ciò che rimane sospeso. Un uomo e una donna, lui è un poliziotto, indaga sull’omicidio di una ragazza, lei è una mandriana. Il poliziotto deve preservare la scena del delitto, la donna gli sta accanto, i due fanno sesso e lei rimane incinta. Ma la «storia» non è ciò che interessa il regista, la sua narrazione sceglie altre forme, lavora sulla potenza delle immagini, sulla luce (complice la bravura del direttore della fotografia Aymerick Pilarski) su un tempo della morte e della vita che prende inaspettati detour: è il tempo dell’attesa (ondog significa uovo), di cui la donna conosce il ritmo segreto. E le traiettorie di un sguardo nel quale l’essere umano ripensa la sua funzione.

ANCHE il tempo di Petrunija è sospeso ma in senso opposto: ha trentacinque anni, è laureata in storia ma nella Macedonia in cui vive questo è un dettaglio che vale zero. Vive coi genitori, la madre insopportabile, il padre che è sempre dalla sua parte, è sovrappeso, si trascura, si veste malissimo. La sua ossessione è trovare lavoro, ma i colloqui sono destinati a fallire, l’amica del cuore aspetta che l’amante – ovviamente sposato – lasci la famiglia intanto cuce vestiti che presta a Petrunija. Qual è il punto limite di sopportazione per tante aspettative disilluse? L’ennesima frase della madre che le grida dietro di abbassarsi l’età? O la mano viscida del capo fabbrica sulle sue ginocchia mentre la osserva con disgusto per dirle che no, con lei non avrebbe fatto sesso ma che per quel posto di segretaria non è adatta? Siamo in un mondo di uomini e di donne «miso maso» avrebbero detto Roussopoulos e Seyrig che hanno introiettato le «regole» del patriarcato più pesanti di qualsiasi legge: Dio, Patria, Famiglia, e quando la giovane donna è più veloce dei maschi carichi di testosterone a tuffarsi per prendere la croce nella processione rituale, la comunità impazzisce.
È una strega? Una miscredente? L’arrestano ma forse no – non ci sono i motivi. Il pope rivuole la croce indietro, i maschi la massacrano – come osa mettere in dubbio la loro virile predominanza? La madre l’attacca, la tv con una confusa reporter cerca di mediatizzare.

RACCONTA Mitevska, nata a Skopje, attrice sin da bambina prima di passare alla regia, anche lei debutto a Berlino, dove ha presentato il suo primo film, I am from Titov Veles (Panorama) premiato in tutto il mondo – e i successivi, The Woman Who brushed off her tears e When the day had no name – che la sua Petrunija voleva esprimere le contraddizioni della Macedonia di oggi, di una società in cui i cambiamenti democratici si incagliano con la rappresentazione imposta da chiesa, polizia, media: «Ho provato a dare voce a quelle donne determinate a combattere una tradizione arcaica e i suoi opportunismi», dice. Petrunija – la bravissima attrice Zorica Nusheva possibile Orso – gli schemi li rompe con la sia presenza, col corpo sovrappeso che non cerca la seduzione, con la sua testa di storica che crea nessi in profondità contro la superficie. Ha una rabbia punk che tiene a bada la fatica, quei maschi la odiano perché non si arrende al loro potere. Mitevska costruisce il suo racconto – a volte forse con qualche sottolineatura di troppo – su di lei, da lì si definiscono il mondo e la sua violenza. Siamo in Macedonia ma potremmo essere altrove oggi, quando il sentimento del precariato – sociale, esistenziale – si cerca di controllarlo riprendendo le regole, la «tradizione» rassicurante, sempre in nome di dio-patria-famiglia di cui le donne sono il bersaglio. Petrunija è una ragazza del nostro contemporaneo, non possiamo che essere dalla sua parte.