«Peggio che malvestita, in moderno», sentenziava fulminante la signorina snob di Franca Valeri: probabilmente avrebbe replicato all’uscita di uno degli spettacoli del Festival di Aix en Provence. L’ambientazione contemporanea si è imposta quasi inarrestabilmente sui palcoscenici d’opera, quasi una sorta di tacita condizione perché il teatro lirico possa ancora parlare al pubblico del nostro tempo Ai servizi fotografici di moda sembra ammiccare dunque Krzysztof Warlikowski per l’oratorio di Handel Il trionfo del tempo e del disinganno: Bellezza, la vocalmente e scenicamente doviziosa Sophie Devieilhe, perfetto hairstyle e trucco sfatto, passa dal microabito di seta ai jeans, dal bomber di pelle al sandalo gioiello, lanciandosi in dissipate notti di ballo, sballo e sesso insieme a Piacere, il nevrotico Franco Fagioli.
Ingaggiando una faticosa battaglia, intessuta di arie e duetti meravigliosi, Tempo (Michael Spyres) e Disinganno ( la magnifica Sara Mingardo) strappano infine Bellezza alle lusinghe di Piacere. Cambio di fashion editor, nel finale Bellezza si redime vestendosi da perversa bambina in pizzi bianchi e simboli religiosi. Sotto il vestito però c’è poco e niente: il raffinato, astratto libretto di Benedetto Pamphili non fornisce alcuna utile ispirazione al regista, che nelle note di sala cita Sarah Kane e Francis Bacon, e inserisce alla fine della prima parte a sorpresa un lungo spezzone cinematografico di Jacques Derrida che parla dei fantasmi contemporanei. Le Concert d’Astrée e Emmanuelle Haim cesellano, nello spazio aperto dell’Archeveché, una lettura asciutta e puntuale dell’oratorio del 1707, arricchita da un elegante lavoro su variazioni e cadenze.

Dall’incubo di una giovane sposa contemporanea origina l’intera vicenda di Péllas et Mélisande, che la regista Kathie Mitchell legge interamente dalla prospettiva di Mélisande, costantemente in scena, impegnata anche nella costernata osservazione dell’azione di un proprio doppio. Uno spettacolo con tratti disturbanti, tuttavia aderente alla drammaturgia di Debussy e Maeterlink: un turbamento minaccioso pervade l’immensa macchina scenica, una sorta di casa di bambola, in parte in rovina, fra cumuli di terra e rami d’albero insinuati fra le stanze, la scala di ferro e la piscina diseccata, frutto del progetto di Lizzie Clachan e del gruppo di tecnici, meritatamente applauditi dal pubblico insieme agli artisti a fine serata.

Il claustrofobico sogno di Mélisande, fitto di citazioni dell’arte fotografica di Gregory Crewdson, è costantemente bagnato dall’onda luminosa della Philharmonia Orchestra guidata da Esa Pekka Salonen, che – controllando dettagli e visione di insieme – distilla infallibilmente la perfetta misura di naturalezza e opulenza coloristica. Prova superlativa di Barbara Hannigan, al debutto nella parte.