Ecco comparire il principe, così deformato da un’altezza iperbolica che le sue gambe non sostengono il peso del corpo oscenamente allungato, tanto da costringerlo a camminare sulle ginocchia. Ma l’incedere da suppliziante di questa mostruosità regale non è che un’illusione, una crudele menzogna, perché in un battere di ciglia, in un metallico fragore di schianto ed energia crepitante, ce lo troviamo alle spalle che ci pugnala con uno spadone gigante, massacrandoci. Solo al secondo tentativo cominciamo a schivare questo devastante primo attacco, ma altri pioveranno come in un diluvio di lame e fuochi ancora più micidiali e la battaglia si trasforma in una danza disperata, durante la quale sbagliare un passo significa l’estinzione e la ripetizione. Proprio quando, dopo numerosi e faticosi tentativi, riusciamo infine a portare a buon fine un attacco definitivo e con sollievo e conseguenti aritmie tachicardiche cominciamo a metabolizzare la vittoria, ecco levarsi da un buio abside il gemello rachitico del principe oblungo, ammantato di una tunica sfilacciata e dalle mani come artigli pallidi di rapace. Quest’ultima triste figura resuscita il fratello e gli si pone sulle spalle nell’imitazione di grottesco cavaliere d’uomini. Adesso dovremo resistere anche ai suoi attacchi magici, durante uno scontro a tre che appare insormontabile, allucinante. Ci vorranno equilibrio interiore, pazienza e abilità per portare a compimento questa sfida così teatrale e orripilante e se non cediamo alla disperazione e al panico infine ce la faremo, sperimentando un’esaltazione ludica e avventurosa che è raro provare oggi, epoca durante la quale i videogiochi tendono a lusingarci con una difficoltà spesso irrisoria.

È arrivato Dark Souls 3, gioco di ruolo d’azione per Playstation 4, XBox One e Pc, la nuova diabolica invenzione di Hidetaka Miyazaki. La battaglia con i due principi non è che un frammento di un’infernale ordalia attraverso un mondo fantasy cinereo e folle, laddove pure la rarissima luce che illumina le terre maledette di Lothric è sadica e crudele. L’atmosfera cavalleresca è avvelenata in maniera terminale dai germi di un scempio ancestrale che trasforma ogni panorama e personaggio nella sua ombra sinistra e oscura, tentando di includere chi gioca, smarrito in un orrore cosmico. Il fantasy, corrotto magistralmente dalle alchimie poetiche e ludiche di Miyazaki, è un genere impazzito come se torturato da antichi dei lovecraftiani, scivolato oltre la più delirante psicopatia horror, spogliato da qualsiasi elemento fiabesco e vestito di un’epica ingloriosa che qui canta singhiozzando la miseria sconfinata di un mondo che si consuma al suono dell’impietosa risata di un astro malvagio.

Come nelle altre opere dell’autore la narrazione è ermetica, sfilacciata, nascosta e ambigua, poiché anche la Storia è stata scempiata nella sua linearità e il racconto è illusoriamente minimale; vi sono delle tracce da interpretare e decifrare che portano a sentieri contradditori e a trame traducibili con un atteggiamento schizofrenico. Il lettore non abituato a questo genere di esperienza videoludica può quindi domandarsi come potrebbe chiunque non possieda una personalità masochista, trasformare i propri momenti di gioco, magari rari, in attimi di dolore e sofferenza. Tuttavia è tramite l’erroneo dubbio che le invenzioni di Miyazaki siano solo un incubo doloroso, che si alimenta l’idea che queste siano per i pochi con il coraggio e la «follia» di giocarci. Perché tanta difficoltà ludica, fisica e emotiva si tramuta con il tempo in un’avventura straordinaria della sopravvivenza virtuale tra perigliose vie numeriche che giocano con il subconscio e con le paure che vi stagnano, insegnandoci a sconfiggerle con rigore, logica, coraggio e calma interiore. I videogiochi delle serie «Souls» sono una sfida contro l’ignoto, ci educano, negando l’aforisma di Nietzsche, affinché si possa guardare nell’abisso e rimanere impassibili quando questo a suo volta ci scruta, non diventando mostri a nostra volta quando tutto è mostruoso.

È con un nipponico atteggiamento da samurai che si sconfigge la trappola mortale architettata con rigore geometrico altissimo da Miyazaki e la gratificazione che si ricava dalla vittoria è qualcosa di unico in ambito videoludico. È questo uno dei motivi per cui i «Souls» si sono trasformati da prodotti di nicchia in un importante fenomeno culturale che coinvolge milioni di giocatori. Inoltre bisogna considerare l’arte con cui gli scenari e le creature che li abitano sono disegnati: vi è uno sfiorito lirismo, un’appassita elegia in ogni dettaglio che non esclude una bellezza cimiteriale ma travolgente, supportata da una colonna sonora che tace quasi sempre, andando ad alimentare con enfasi corale le battaglie più tormentate contro i grandi di nemici che regnano sulle diverse aree di Lothric.

Non sono solo questi maestosi «boss» a rappresentare una minaccia letale per il giocatore, anche i nemici comuni ci possono eliminare con pochi rabbiosi attacchi se perdiamo la concentrazione necessaria all’esplorazione.
Trascorriamo da tombali campi disseccati i cui sentieri si aprono sul panorama glaciale di lontane e aguzze montagne e la cui vista ci fa sentire come uno sventurato Viandante di Friedrich, a cattedrali abitate da dissennati e ottusi colossi dormienti. Percorriamo i cunicoli di catacombe muffose mentre ratti marci e abnormi zampettano verso di noi e streghe dal volto squarciato e dal ventre rigonfio ci vomitano contro incanti brucianti. Alla luce di una perenne eclissi saliamo le solenni gradinate di castelli contorti mentre nel cielo arancione volano gli spettri scarnificati di antichi draghi. Affondiamo nelle acque torbide di paludi tossiche inseguiti da granchi abnormi e scheletri che hanno divelto i legni a cui erano crocifissi per trasformarle in armi con cui straziarci.

E ci sentiamo così piccoli, mentre cerchiamo di aumentare le nostre abilità salendo faticosamente di livello, recuperando quel minerale che ci permetterà di potenziare la nostra arma, puntando da lontano un nemico con il nostro arco per liberare uno stretto passaggio tra ruderi muscosi.
Bisogna essere umili in Dark Souls 3 più che campioni del videogame, e il gioco ce lo ricorda in continuazione, punendoci solo quando siamo troppo sicuri di noi stessi, poiché la follia germina con la presunzione e solo la ragione scandisce la ritmica della sopravvivenza. Così, con il suo scenario sfrenatamente dionisiaco e imputridito, Dark Souls 3 è un monumento al candore e alla quiete apollinea, che germoglia nel giocatore vincente e illumina la tenebra del sonno del senno.

Ancora una volta Hidetaka Miyazaki e gli artisti di From Software sono riusciti nell’impresa di comporre un’opera ludica ostica e solo apparentemente crudele, perché la correttezza verso l’impegno del giocatore non viene mai a mancare rischiando così di trasformare l’esperienza in frustrante.
Alla scuola di Miyazaki non vince mai il più forte, ma chi accetta la paura come motore di coraggio, un timore che rende consapevoli e impassibili come dovrebbero essere i cavalieri Jedi di Guerre Stellari o un pianista dilettante che, dopo anni di studio, riesca infine ad eseguire una sonata di Beethoven, sconfiggendo con le sue dita, con l’applicazione e con l’amore-odio per l’opera, i «crudeli» segni sullo spartito per trasformarli in musica sublime.