Manifesto per la storia Il ruolo del passato nel mondo d’oggi di David Armitage e Jo Guldi (trad. Davide Scaffei, Donzelli «Saggine», pp. 296, euro 22,00) è un libro bifronte. Ha motivazioni politiche e sociali impellenti. Tuttavia si presenta nel modo pacato e compendiario della migliore rassegna bibliografica. I suoi bersagli polemici sono la microstoria da un lato; le tecnocrazie globali dall’altro. Perché la microstoria non funziona, per Armitage e Guldi? Non funziona oggi, dopo aver funzionato assai bene in passato, perché, a circa cinque decenni dalla sua diffusione, ha ormai smarrito quelle premesse di «azione» e intervento militante che l’avevano caratterizzata ai suoi esordi. Ha acquistato tratti solipsistici. I due autori non si nascondono i grandi meriti dell’indagine in archivio o dello studio di caso: propongono infatti non una semplice soppressione della microstoria, ma una sua cooptazione da parte della storia universale. Tuttavia, osservano, la concentrazione su questioni troppo minute e ambiti temporali ristretti rischia oggi di privare gli storici di capacità che erano state per lungo tempo il loro requisito specifico: connettere il presente al passato, ad esempio, e aiutare così anche il lettore non specialista a immaginare il futuro.
A che serve la storia, si chiedono, se l’indagine particolare non attinge un determinato livello di generalità, e i suoi esiti non sono trasferibili se non a una cerchia estremamente ristretta di specialisti? Occorre tornare alle Grandi Narrazioni, alla storia intesa sì come «lunga durata» al modo di Braudel, ma anche come insegnamento rivolto all’opinione pubblica e ai governi. Historia magistra vitae, dunque: memoria collettiva e pedagogia etico-politica.
Scienziati naturali e sociali si sono da tempo sostituiti agli storici nel ruolo di esperti e consulenti degli Stati o delle grandi organizzazioni internazionali. Con conseguenze negative sul piano del dibattito pubblico o della risposta alle più drammatiche tra le sfide del presente, affermano Armitage e Guldi. Perché, per quanto ambiziose e corredate da un’imponente massa di dati, molte storie di lunga durata scritte da economisti, biologi evolutivi o climatologi convalidano acriticamente pregiudizi ideologici correnti. Insegnano magari che le politiche di austerity sono inevitabili o che la distruzione dell’ambiente è inscritta nella storia evolutiva di Homo sapiens; che il capitalismo riduce progressivamente la diseguaglianza – anche se Thomas Piketty ha dimostrato di recente che è vero il contrario – o che i comportamenti umani sono modellati dal «gene egoista»: tesi, quest’ultima, suggestiva in apparenza e tale da ricondurre la varietà a un unico principio, che si scontra però con la realtà storica.
In ogni epoca, sostengono i due autori, si sono avuti esempi controfattuali di comunità rette da mutualità e solidarismo, sia dentro che fuori l’Occidente. D’altra parte gli studiosi del cambiamento climatico tendono ad adottare punti di vista apocalittici che inducono al furore o alla rassegnazione. Nell’uno o nell’altro caso si smette di progettare futuri alternativi. «La prospettiva a lungo termine – leggiamo nel libro – può aiutare coloro che si interrogano sul futuro e formulano previsioni al suo riguardo a opporre resistenza al pensiero dogmatico… In un mondo in cui creazionisti, ambientalisti e teorici del libero mercato difficilmente discutono tra di loro, la storiografia può avere il ruolo dell’arbitro».
È stato Isaiah Berlin, in saggi distribuiti lungo diversi decenni, a chiedersi se la dote principale, per uno storico, non debba essere qualcosa come la sagacia dell’uomo d’azione: quella sorta di pronta valutazione di ciò che è determinante in una circostanza determinata, congiunta a fiduciosa determinazione. Persuasi dell’utilità delle Digital Humanities, Armitage e Guldi mantengono fermo il rifiuto berliniano di ogni determinismo. Per di più hanno cura di spiegarci come, sotto profili espositivi e tout court retorici, gli storici possano recuperare le posizioni perdute. Perché, aggiungono, «la digitalizzazione per sé non è sufficiente a diradare la nebbia che occulta la storia del passato e la confusione di una società divisa da mitologie conflittuali».
C’è una parola che torna con insistenza in Manifesto per la storia, ed è al tempo stesso ragionevole e utopica: arbitrato. Sono gli storici, raccomandano Guldi e Armitage, a dover essere «arbitri» dell’interesse generale: dunque, mentori, interpreti, sacerdoti. Ma è davvero possibile immaginare qualcosa del genere in una società ultracapitalistica come quella attuale? Immaginare cioè che i governi si rivolgano ai dipartimenti umanistici delle nostre università per trarne lumi sui modelli di sviluppo, su questo o quel negoziato sociale, sulla politica estera o dell’ambiente? Si stenta a crederlo: ed è forse un limite all’autorevolezza del Manifesto la scarsa conoscenza che i due storici dimostrano per la cultura tedesca dell’epoca di Weimar, ben lungi dall’esaurirsi, come essi sembrano supporre, nella pratica ultraspecialistica dell’erudizione accademica.
In un recente intervento sul New York Times, Nicholas Kristof, editorialista politico del quotidiano, invitava a non sottostimare l’importanza delle discipline umanistiche. «Viviamo in un mondo più prospero – osservava Kristof – quando programmatori e uomini del marketing ci assediano con smartphones e tablets. Presi per se stessi, tuttavia, gli uni e gli altri sono nient’altro che tavolette. Sono la musica, i saggi, i giochi cui danno accesso che conferiscono loro valore, e tutto ciò è reso possibile da un’intelligenza di tipo umanistico». È significativo che un vivace sostegno alle discipline umanistiche sia venuto qui da un acuto osservatore dell’attualità internazionale, da un intellettuale «generalista»; e si accompagni al riconoscimento dell’importanza delle «nuove idee». Kristof concludeva questa sua riflessione augurandosi che gli umanisti potessero intervenire di più sui media. La posizione di Kristof rinvia a un punto di vista simile a quello di Armitage e Guldi. Ed è senz’altro condivisibile: purché ammettiamo le conseguenze perverse di un determinato specialismo umanistico e ci adoperiamo per un’autoriforma disciplinare senza indulgere, come taluni fanno, a difese corporative o all’autocommiserazione.
Che cos’è lo specialismo deteriore? Non è semplice rispondere. Per uno storico dell’arte come Gombrich, che nel saggio dal titolo In Search of Cultural History affronta tra i primi il problema di una società cosmopolita (o globale o multiculturale), è lo specialismo che ha smarrito ogni rapporto con la cultura generale di un’epoca. Secondo Edward Saïd lo specialismo di cui tutti oggi più o meno soffriamo ha origini postbelliche, ed è connesso al modello universitario angloamericano: qui si affermano «la competenza monodisciplinare e il culto per l’esperto accreditato». Invece per John Armstrong, filosofo inglese in carica all’università di Melbourne, è deteriore quello specialismo che non permette di «individuare e salvaguardare tutto ciò che possiede un alto valore intrinseco e promuovere nel pubblico la massima adesione a quel valore». Armstrong insiste sulle politiche di scrittura: semplicità e chiarezza, osserva, giovano alla trasmissione della conoscenza e obbligano gli specialisti a interrogarsi con più severità sui presupposti non meramente tecnici o eruditi delle proprie ricerche.
Per Armitage e Guldi lo specialismo deteriore fallisce nel comunicare in modo avvincente e persuasivo al di fuori delle cerchie ristrette. Non è solo angusto e privo di inquietudine morale. È anche incapace di «tradurre» la complessità senza rinunciare a essa. Non si tratta qui, è evidente, di fare sfoggio di bello stile, ma di convincere dell’importanza dei nostri argomenti (posto che ne abbiano!) dal punto di vista dell’interesse generale.