Qualche giorno fa qui a Medenine, nel sud della Tunisia, abbiamo conosciuto dei ragazzi somali, giovanissimi come nella quasi totalità dei casi. Hanno passato il confine dalla Libia solo una settimana fa. Sono dei sopravvissuti al bombardamento di Tajoura. Come loro in centinaia, in seguito al bombardamento e all’impossibilità di rimanere nel centro di Tajoura, sono stati invitati a disperdersi.

Il governo di Sarraj, come se stesse rispondendo a un appello accorato da parte della comunità internazionale, fa sapere che sta meditando la possibilità di liberare i migranti dai centri di detenzione. Tutti contenti? Per niente proprio. I primi a non esserlo sono proprio i migranti.

La Libia è un enorme lager a cielo aperto, dove vige un’impunità diffusa per tutto ciò che viene praticato ai danni dei migranti, da parte di milizie come da parte di libici privati. Per questo non c’è differenza tra dentro e fuori i centri di detenzione.

Questo, i migranti che parlano attraverso i messaggi vocali inviati via whatsapp a Exodus, lo raccontano chiaramente sin dalla prima puntata, sin dallo scorso settembre (ma era già un fatto chiaro raccontato nell’estate 2017 nel documentario Schiavi di riserva).

La quasi totalità di loro chiede evacuazione, non di mettersi in coda per aspettare di rischiare la vita prima o poi sui gommoni sgonfi. Pertanto, specialmente in questo periodo di conflitto, pur usati come scudi umani nei centri di detenzione (denuncia raccolta da Exodus a fine aprile), i migranti si sentono più al sicuro nei centri che non in libertà.

Perché girare per strada significa essere immediatamente sequestrati da libici privati o da banditi che con armi in mano se li caricano e se li portano a casa, li minacciano a scopo di estorsione e magari li riducono in schiavitù e li rivendono.

Questi ragazzi somali – Mohamed, Mahmud e Ali che hanno tentato la traversata più e più volte, sempre riportati indietro dalla Guardia costiera libica – sopravvissuti del bombardamento di Tajoura del 3 luglio scorso sono stati “liberati”. Gli è stato detto di disperdersi.

Le loro famiglie hanno già venduto tutto quel che avevano per liberarli altre volte dai banditi o per pagare una traversata non andata a buon fine per l’intervento della Guardia costiera libica (in combutta con chi li ha imbarcati), ma forse questa non è la peggiore delle cose che gli è capitata visto che altrimenti avrebbero rischiato di morire affogati.

Quindi hanno fatto ciò che molti altri con cui siamo in contatto dai centri di detenzione dicono di voler fare non appena saranno liberi: sono venuti in Tunisia a piedi. Hanno passato la frontiera e ora sono nelle mani dell’Unhcr e di un’Europa che non li vuole vedere, che li disprezza come si disprezzano i disertori che non vanno alla guerra, solo perché imbarcarsi, ancor prima di essere una scelta discutibile, non era un’opzione alla loro portata, se non altro da un punto di vista economico.

Cercano protezione, quella protezione che paradossalmente chi li ha liberati dai centri gli ha negato. Noi non ci stanchiamo di ripeterlo: chiedono evacuazione, non gommoni sgonfi su cui rischiare la vita una volta di più. Non solo, parlare di salvataggi in mare è un altro modo per sub-determinare la volontà e il destino dei migranti in Libia che hanno bisogno urgente di vie di fuga e non solo per il conflitto in corso in Tripolitania.

Qui a Exodus sono mesi che ripetiamo che l’evacuazione dei migranti via aereo, pure quando fosse verso l’Europa, non solo rappresenterebbe quel minimo di giustizia nei confronti dei 50.000 richiedenti asilo abbandonati negli ultimi anni nelle mani degli aguzzini libici, ma permetterebbe di aggirare l’annoso problema del trattato di Dublino, perché i migranti verrebbero suddivisi al momento di decollare dalla Libia secondo le quote di cui parla anche il ministro tedesco Heiko Maas, diretti poi verso gli aeroporti delle principali capitali europee.

*regista, videoblogger e ideatore del progetto Exodus, rivolto ai migranti bloccati in Libia