Della vicenda di Giovanni Lorusso ci eravamo già occupati. Lorusso, 41 anni, muore nel carcere di Palmi il 17 novembre 2009. Le prime spiegazioni delle cause del decesso sembrano essere univoche: suicidio tramite inalazione del gas della bomboletta con cui i detenuti cucinano. La vicenda carceraria di Lorusso è tristemente esemplare. Assuntore di sostanze stupefacenti fin dall’età giovanile, Lorusso commette più reati a causa del suo stato di tossicodipendente. Alterna, così, periodi di libertà a periodi in carcere e in comunità terapeutica e il motivo della sua ultima carcerazione è il furto di uno zaino sulla spiaggia di Rimini. Per quel reato, essendo recidivo, viene condannato a 4 anni e 5 mesi. Inizia a scontare la pena nel carcere di Rimini e il suo difensore fa istanza affinché vengano concessi a Lorusso i domiciliari presso una comunità terapeutica. In attesa della risposta del tribunale, però, Lorusso viene trasferito nel carcere di Ariano Irpino, lontano dalla famiglia che vive in Lombardia. Chiede di essere riavvicinato a casa ma, per tutta risposta, ottiene solo un trasferimento ancora più a sud: il carcere di Palmi in Calabria. Da qui scrive una lettera alla sorella in cui confessa di aver provato a suicidarsi e in cui denuncia di essere stato picchiato dagli agenti di polizia penitenziaria di Ariano Irpino. Nel frattempo arriva la risposta dal tribunale, che acconsente ai domiciliari in comunità a partire dal 20 novembre. Il fax con la comunicazione arriva in carcere il 16 novembre e, dopo i controlli di rito, può essere comunicata al detenuto dalle ore 12 del 17 novembre. La comunicazione non avverrà mai, e Lorusso viene trovato privo di vita nella sua cella quel pomeriggio stesso.
I punti controversi sono molti e, dopo varie richieste di archiviazione e un processo mai partito, in questo momento siamo a un punto fondamentale. Il 26 giugno scorso si è svolta un’ennesima udienza e un giudice, nei prossimi mesi, farà conoscere la sua decisione: dibattere la vicenda di Lorusso in un tribunale decidendo per il rinvio a giudizio del direttore, di due agenti e del medico psichiatra del carcere di Palmi, oppure concludere che le tante questioni ancora aperte non siano meritevoli di risposta. Ecco i punti su cui l’avvocato Martina Montanari ha chiesto l’integrazione delle indagini, motivando l’opposizione all’archiviazione.
a. La comunicazione del provvedimento di affidamento in comunità, che per legge e prassi doveva essere immediatamente trasmessa a Lorusso. Probabilmente, se quella comunicazione fosse avvenuta nei tempi corretti, il suicidio si sarebbe evitato.
b. L’attitudine del detenuto a compiere atti di autolesionismo, come emerge dagli interrogatori degli imputati: nel diario clinico della casa lavoro dove si trovava prima dell’ultima detenzione sono stati riportati numerosi episodi di autolesionismo; il dirigente sanitario di Palmi «verbalizza minacce di gesti autolesionistici» da parte di Lorusso nel caso in cui non venisse soddisfatta la richiesta di trasferimento; uno degli indagati riporta in cartella clinica il tentativo di Lorusso di tagliarsi le vene ma, nel corso dell’interrogatorio, riferisce di non averlo valutato come gesto autolesionistico.
c. Nel carcere di Palmi viene applicata la «grande sorveglianza» proprio per garantire un maggiore controllo, ma evidentemente la misura non risulta efficace.
In poche parole, la domanda è la seguente: nel carcere di Palmi si era a conoscenza del fatto che Lorusso potesse mettere in atto gesti autolesionistici? A leggere gli atti la sensazione che si ricava è quella di persone che, a vario titolo e con vari ruoli, non avrebbero esercitato la propria funzione né rispettato il proprio dovere. E che provano a scaricare le responsabilità le une sulle altre. Nelle vicenda di morti in carcere – frequentissime purtroppo, 82 nel solo 2014, di cui 24 per suicidio – è difficilissimo riuscire a risalire a responsabilità precise. A volte si mischiano colpa, incuria, omissione, superficialità. Un mix di azioni e mancate azioni spesso letale. Qualunque siano le circostanze, i diversi ruoli di chi in carcere lavora, le difficoltà innegabili di chi si trova a operare all’interno dei nostri istituti penitenziari, una cosa è certa: non è possibile continuare ad accontentarsi di mancate risposte e di mezze verità quando si parla della vita di uomini che sono stati affidati alla custodia dello Stato.
*Direttrice di A buon diritto