Seicento sindaci italiani si sono ritrovati in piazza, a Roma, con la fascia tricolore al braccio. Vengono da ogni parte del paese, appartengono a tutti gli schieramenti politici, li accomuna la carica che ricoprono a prescindere dalle condizioni economiche o dalle dimensioni del comune che amministrano.

DA SINONIMO di decisionismo, tanto da alimentare fino a qualche anno fa una campagna strisciante per il presidenzialismo inneggiante alla necessità di eleggere il «sindaco d’Italia», gli amministratori locali sono il simbolo di una politica che si dichiara impotente e che consegna i libri contabili in tribunale come se fosse un’azienda come un’altra. Sono stritolati dai patti di bilancio, dalle burocrazie e dal dilagare di cause e denunce che li mettono alla mercé di campagne giudiziarie e rischi di illecito. Tanto che, ed è cronaca di questi giorni, si fatica a trovare personale politico disponibile ad impegnarsi nella prima linea delle amministrazioni comunali. Da palestra della classe dirigente del paese, si ricorderà la stagione del «Partito dei Sindaci», la tolda di comando delle città italiane rischia di essere relegata a postazione da esecutore fallimentare.

«NON VOGLIAMO l’immunità, non vogliamo l’impunità – assicura il presidente dell’Anci e sindaco di Bari Antonio Decaro – Ma vogliamo essere giudicati per quelle che sono le responsabilità di un sindaco.. Ci ritroviamo indagati qualunque cosa accada nei nostri comuni per il solo fatto di essere sindaci, vogliamo delle tutele». Per Virginia Raggi, sindaca di Roma, il problema è la giungla di norme: «Chiediamo ad esempio la riforma del sistema degli appalti perché non è possibile aspettare due o tre anni per indire una gara». Da Torino Chiara Appendino mette in relazione la velocità delle pratiche con i fondi del Piano nazionale di resistenza e resilienza: «Se dobbiamo spendere quei soldi dobbiamo essere messi nelle condizioni di poter firmare senza paura. Per questo chiediamo le tutele giuste». Leoluca Orlando mette l’accento sulle regole che da tempo strangolano i bilanci: «Insieme a tutti i sindaci d’Italia dichiariamo il fallimento del federalismo fiscale e chiediamo che si torni alla finanza derivata – ha detto invece il sindaco di Palermo Leoluca Orlando – occorre che lo Stato si faccia carico soprattutto di realtà come la Sicilia, dove ci sono comuni sovraindebitati ma anche comuni sovraccreditati, a causa della mancata attuazione del federalismo fiscale».

IL SUO OMOLOGO milanese Beppe Sala lancia l’ultimatum: «Se entro tre mesi non avremo ottenuto una risposta saremo ancora qui». Propongono che il governo adotti un decreto legge che accolga le loro richieste. Visto che, dicono dall’Anci del Lazio, «in questi anni i nostri compiti siano cresciuti esponenzialmente mentre le risorse, sia umane che finanziare, si sono drasticamente ridotte. Il tutto in un quadro di regole complesso, confuso e contraddittorio». «Decaro si dice ottimista, dice che il presidente del consiglio Mario Draghi è ben disposto. Negli anni in cui le istituzioni e il sistema dei partiti venivano travolti dalla bufera giudiziaria di Mani pulite, l’introduzione dell’elezione diretta del sindaco ha consentito di creare un legame forte fra elettore ed eletto – dicono i sindaci – I nostri compiti sono cresciuti in modo esponenziale in un contesto di riduzione di risorse umane e finanziarie, e in un quadro di regole spesso confuso e contraddittorio. Così i sindaci, nell’immaginario collettivo, sono i responsabili di tutto».

LA PIATTAFORMA dell’Anci non individua il tema dei vincoli di bilancio, dell’austerità che strozza le casse comunali e che al tempo stesso delega agli enti locali la gestione di servizi di primaria importanza. Risente della retorica dell’efficienza, che rischia di trasformare i sindaci in amministratori di condominio, nello scenario distopico di città trasformate in agglomerati senza spazi pubblici al servizio della produzione o della semplice tutela di piccole e grandi proprietà private. Ma il loro grido d’allarme è il segnale della politica che gira a vuoto.