Se l’ultima legge in Italia in materia di cave risale al 1927, la ragione la troviamo nei numeri di un rapporto sul tema presentato lunedì da Legambiente.
Sono oltre 4 mila le cave attive in Italia e 14 mila quelle abbandonate in ogni regione italiana, ma nessuno ne parla ed è come se fosse considerato un prezzo da pagare allo sviluppo dei territori. Eppure, quanto troviamo in questo settore ha aspetti davvero incredibili. Basti dire che in Valle d’Aosta, Basilicata e Sardegna non sono previsti canoni per l’attività estrattiva. È gratis. In Lazio, Umbria, Puglia e della Provincia Autonoma di Trento invece non si arriva al 2% di canone rispetto al prezzo di vendita di sabbia e ghiaia.

Gli interessi di chi non vuole che se ne parli sono evidenti, il totale nazionale di tutte le concessioni pagate nelle Regioni, per sabbia e ghiaia, è di 17,4 milioni di euro a fronte di 467 milioni di euro all’anno ricavati dalla vendita. Ancora più incredibile è il rapporto per i preziosi marmi italiani che esportiamo in tutto il mondo, a fronte di una devastazione di montagne delicate come le Alpi Apuane. Se semplicemente venisse applicato il canone della Gran Bretagna, pari al 20% dei prezzi di vendita, negli ultimi dieci anni si sarebbe potuti generare quasi 4 miliardi di euro di entrate per le casse pubbliche.

E non è vero che la conseguenza sarebbe un aumento del prezzo delle materie prime, quanto piuttosto la spinta al recupero dei rifiuti da demolizione e ricostruzione, come è avvenuto in tutti gli altri Paesi europei dove l’occupazione nel settore è cresciuta. Ma per fare un salto in avanti serve un intervento del Governo, per mettere mano a una situazione per cui in tante regioni mancano piani per gestire l’attività, un problema rilevante perché si lascia tutto il potere decisionale in mano a chi concede l’autorizzazione, in un settore in cui non solo al Sud è forte il controllo da parte della criminalità organizzata.

Il paradosso è che oramai siamo l’unico Paese in Europa che ancora non ha capito che un altro modello non solo è possibile, ma conviene in termini di ricchezza delle imprese e posti di lavoro – si hanno il 30% di occupati in più nella filiera del recupero e riciclo – innovazione nel settore edilizio. Il tema è molto più di attualità di quanto si potrebbe pensare, non solo perché nei prossimi anni si apriranno grandi e piccoli cantieri, come l’alta velocità finanziata dal recovery plan e nei condomini finanziati dal superbonus, ma perché ci troviamo di fronte a un esempio emblematico delle contraddizioni nel modo in cui in Italia si gestiscono i beni pubblici e si regolano le concessioni per attività così impattanti.

La buona notizia è che questa situazione oggi può essere cambiata, proprio la chiave del recupero e riciclo può contribuire non solo a ridurre progressivamente le cave ma a rilanciare il settore delle costruzioni. Sono diversi gli esempi in questo senso raccontati nel rapporto di cave attive e recuperate a vantaggio delle comunità coinvolte. In alcuni grandi cantieri di demolizione a Ferrara e Prato si è arrivati a recuperare il 99% dei materiali presenti, da mandare a riciclo. Possiamo trasformare rifiuti provenienti dalla siderurgia e dall’agricoltura in materiali da usare nei sottofondi stradali e nella creazione di mattoni. Si possono creare intere filiere di materiali ad impatto zero, o rifare centinaia di km di superfici stradali, piste ciclabili, aeree aeroportuali, con materiali riciclati al 100%.

Non esistono più scuse e i cantieri del recovery plan sono un’occasione che non possiamo sprecare, anche perché non servono risorse ma piuttosto che il ministro Cingolani smuova finalmente il Ministero di cui è responsabile. Ci sono tanti rifiuti che possono trasformarsi in materiali preziosi per le costruzioni, salvo che da anni sono in attesa dei decreti End of waste.

* vicepresidente Legambiente