Lo sfruttamento non ha davvero colore politico, e così capita che una delle giunte più «rosse» che ci siano – quella di Giuliano Pisapia a Milano – apra una gara al massimo ribasso che addirittura non rispetta neanche i contratti. È accaduto lo scorso febbraio, per il servizio 020202 (informazioni ai cittadini): si richiedevano operatori che conoscessero almeno due lingue e con un anno di esperienza. Ma il top della sfacciataggine è arrivato al momento di fissare il prezzo: base d’asta, 45 centesimi al minuto. «Il che vuol dire – spiega Umberto Costamagna, presidente di Assocontact Confindustria – circa 18 euro all’ora, calcolando i 40 minuti medi parlati. Quando un terzo livello costa 17,80: e non ci mettiamo gli affitti, gli altri costi, lo sconto rispetto all’asta». E poi, magari, un guadagno, che l’impresa dovrà pur fare.

Lo stesso Costamagna, titolare di Call&Call, si è rifiutato di partecipare, e ha chiesto agli aderenti alla sua associazione di fare altrettanto. «Su cinque imprese interessate, solo in tre hanno partecipato alla gara – spiega – una delle quali nostra iscritta. Ma le proteste, finite sui giornali, e un nostro successivo ricorso all’Autorità per la vigilanza sui contrati pubblici, hanno per ora bloccato tutto».

Quello di Milano è solo un caso, perché l’intero settore dei call center – 80 mila addetti, 1,3 miliardi di fatturato – è strozzato da gare al massimo ribasso pubbliche (spesso già in partenza sotto i minimi contrattuali di un addetto) e da committenti privati che chiedono ribassi sempre più consistenti. Altrimenti, è il ricatto, vado all’estero: Albania, Romania, Tunisia, paesi da cui ci contattano ormai sempre più operatori. E addio pugliesi, palermitani, napoletani: la recente crisi del colosso Almaviva, che ha annunciato pesanti ristrutturazioni in Sicilia, è una delle tante spie.

Così le imprese hanno chiesto un tavolo al ministero dello Sviluppo economico, e ieri c’è stata una prima riunione a Roma. Il confronto, presieduto dal viceministro Claudio De Vincenti alla presenza di dirigenti del Mise e del ministero del Lavoro, ha visto la partecipazione di Assocontact, Federutility e Asstel e delle segreterie di categoria di Cgil, Cisl, Uil e Ugl. La proposta avanzata da De Vincenti è quella di un osservatorio che approfondisca i problemi tecnici e le richieste sul piano legislativo delle parti, con una prossima riunione fissata per la metà di giugno.

I sindacati, intanto, hanno indetto una giornata di sciopero, con manifestazione a Roma, per il 4 giugno. Chiedono non solo il contrasto al massimo ribasso, ma anche l’applicazione della normativa europea sulla privacy, che imporrebbe maggiori controlli e paletti per le imprese che delocalizzano, soprattutto in paesi extra Ue: dove le norme sulla privacy sono meno stringenti, mentre gli operatori possono maneggiare i nostri dati sensibili, come le carte di credito.

Ancora, il sindacato chiede l’applicazione per il settore dell’articolo 2112 del codice civile, quello che al cambio di appalto (e quindi anche di commessa) garantisce la permanenza degli stessi addetti al servizio. «Basterebbero poche innovazioni legislative per risparmiare milioni in ammortizzatori sociali e incentivi», dice Michele Azzola, segretario della Slc Cgil.

Milioni di soldi pubblici che lo Stato spende quando le imprese chiudono in Italia per delocalizzare (ammortizzatori) o per aprire «nuove» imprese, spesso nel Meridione (incentivi): «Succede spesso che alla fine di una commessa si indica una nuova gara, e che nuovi call center aprano con gli incentivi della 407, prendendo apprendisti. Che poi mollano alla fine degli incentivi, dopo 3 anni. E via nuove gare, nuovi sconti, nuovi abbassamenti dei costi richiesti, in una spirale infinita – conclude il presidente di Assocontact – Per dire basta a tutto questo e limitare le delocalizzazioni, l’Italia deve puntare sul lavoro di qualità: per questo chiediamo al governo di agire sulla fiscalità e sul controllo degli appalti».