È standing ovation per Nel mio nome allo Zoo Palast, dove il pubblico berlinese ha accolto il regista e i personaggi principali con calore e partecipazione. «Il messaggio di questo film è chiaro: ognuno deve essere libero di scegliere che persona diventare» afferma Nicolò Bassetti sul palco. C’è una forte emotività nell’aria e in sala c’è anche Matteo, il figlio del regista che ha ispirato il film, come spiega Bassetti poco dopo in un incontro con la stampa italiana: «L’innesco viene da mio figlio e da una lettera che mi ha spedito annunciandomi il percorso che intendeva affrontare con parole molto coraggiose, con una tensione a rassicurarmi perché prevedeva che avrei avuto un momento di spaesamento. Mi indicava una strada, chiedendogli di stargli vicino». Dopo la scelta di Matteo è arrivata l’idea del film, che riposa essenzialmente su due punti fermi, ovvero «evitare gli stereotipi come la peste e cercare la bellezza al di là dello schema del genere sessuale».

FORSE per la troppa prossimità Bassetti ha deciso di non filmare Matteo, ma di immergersi lui stesso nel mondo delle persone che affrontano una transizione, frequentando per diversi mesi il gruppo trans di Bologna. È lì che il regista ha conosciuto i suoi quattro protagonisti, Leonardo Arpino, Nicolò Sproccati, Raffaele Baldo e Andrea Ragno, che hanno scelto di mettere in gioco la propria esperienza durante i due anni di riprese. «Questo film è stata una grande opportunità per far sentire le nostre voci, dopo aver criticato spesso la rappresentazione che i media forniscono dell’esperienza trans volevamo cimentarci in una pars construens. È stato un atto di responsabilità» afferma Leonardo Arpino. E sarà stata forse quest’urgenza ad aver colpito Elliot Page, il noto attore canadese che è diventato executive producer del film. «Non credevo assolutamente che fosse possibile, Page è una star» ci racconta Bassetti, «ma siamo riusciti a fargli vedere Nel mio nome e ha detto di essercisi riconosciuto, dopodiché ci ha chiesto: cosa posso fare per voi?». Un punto che sta molto a cuore ai protagonisti, su cui tornano più volte nel corso dell’incontro, è quello di non appiattire l’esperienza della transizione ad su un unico modello come spiega Leonardo Arpino: «Essere trans non significa aderire ad un desiderio già predisposto, ad ambizioni e aspirazioni definite in partenza ma significa piuttosto cercare se stessi. Infatti alcune scene tipiche della transizione sono state trattate in maniera molto diversa rispetto al solito. Anche nelle rappresentazioni più rispettose o nell’autorappresentazione ci sono delle scene ricorrenti: la puntura, l’intervento, la barba. Il film sovverte queste immagini e credo che cinematograficamente sia forte, spero che gli spettatori trans si accorgano che il film è stato fatto con loro in mente».

LE COMPLESSITÀ per chi sceglie di affrontare il percorso sono ancora molte, a partire dalla normativa italiana che, se rivoluzionaria nel 1982 quando venne approvata, oggi costringe a passare per un iter lungo e complesso tra cui una diagnosi psichiatrica. Ma come afferma Nicolò Sproccati, «una volta che si è deciso di intraprendere il percorso è bellissimo, è pure euforia», ed è questa spinta liberatoria all’autodeterminazione l’eredità più importante del film.