New York: Brett Gorvy sta per salire su un aereo. È l’ex-capo mondiale dell’arte contemporanea di Christie’s. Va ad Hong Kong per una mostra della casa d’aste e trova il tempo di postare una foto su Instagram di un’opera che passa in vendita. È un dipinto di Jean-Michel Basquiat del 1982: c’è un campione di pugilato tutto rosso sul fondo giallo, si chiama Sugar Ray Robinson. Quando l’aereo atterra, dopo sedici ore, Gorvy riaccende il cellulare. Ha ricevuto tre diverse offerte per il dipinto, provenienti da collezionisti di stanza negli Stati Uniti, a Londra e in Asia. L’acquisto si svolge interamente online e si conclude due giorni dopo. L’episodio è dello scorso mese e giustamente il New York Times ha dato risalto alla notizia. Nell’era che stiamo vivendo, è ormai possibile gestire una transazione da ventiquattro milioni di dollari dal proprio profilo social. Il dipinto era stato battuto all’asta nel 2007 e aveva superato i sette milioni. In questi mesi, Gorvy ha anche dato le dimissioni da Christie’s e co-fondato un marchio insieme al gallerista Martin Lévy. Ha dichiarato, candidamente, che i maggiori collezionisti con cui lavora abitualmente sono su Instagram e che non c’è bisogno dopotutto di mediazioni ulteriori. Ma il profilo Instagram di Gorvy non è solo uno strumento che si può utilizzare a fini speculativi. Oltre a immagini di circolazione comune – il Nudo Rosso di Modigliani, opere celebri di Beckmann o di Picasso – si impara a capire come poteva funzionare il mestiere di un grande mercante vent’anni fa e come funziona oggi. Gorvy, per esempio, ammette che la sua comprensione dell’arte di Basquiat proviene dall’amicizia con Lars Ulrich, batterista dei Metallica, ma anche collezionista rigoroso. La pittura di Basquiat, che punta tutto sulla violenza dei colori e dei neri, non poteva che attrarre lo sguardo di chi in musica cercava le sonorità pesanti dell’heavy metal. C’è una foto che compare sul profilo di Gorvy. Si vede il volto sgranato di Ulrich nel suo salotto, sculture africane disposte nel tavolo e nelle mensole, e a parete, alle sue spalle Profit I, un Basquiat divenuto leggendario. Profit I è una tela orizzontale lunga quattro metri, che Basquiat dipinge in Italia, quando è al vertice della sua carriera, nel 1982. Lo aveva comprato il gallerista svizzero Bruno Bischofberger, altro collezionista leggendario e maniacale, che aveva scoperto Basquiat a inizio anni ottanta e aveva fatto costruire uno studio a Saint Moritz apposta per l’artista. Sempre più schiavo dell’eroina, il pittore americano muore nell’88 e il rifugio svizzero, per Ulrich e Gorvy, diventa una sorta di sacrario europeo della sua grammatica di teste urlanti, schizzate e colorate. Quel santone vodoo che scappa in mezzo a segni incomprensibili di ogni tipo aveva affascinato il batterista dei Metallica, che dal mercante svizzero poteva trovare molte opere di Basquiat, ma era interessato soprattutto a Profit I. Ma naturalmente Bischofberger non intendeva cederlo. La trattativa durò quattro anni, e a curarla fu ovviamente Gorvy. Una bella differenza con le sedici ore di aereo del mese scorso. Il mercante ricorda: quando Ulrich iniziava a comprare dipinti di Basquiat, a fine anni novanta, al massimo si poteva arrivare sul milione di dollari; mentre a maggio, un Basquiat è stato battuto da Christie’s per cinquantasette milioni. C’è da scommettere che anche Profit I, se dovesse tornare sul mercato, batterebbe il record. Ora è di proprietà di una compagnia svizzera, giacché il batterista nel 2002 decise di vendere la sua collezione per costruire una casa per la sua famiglia su una collina di San Francisco. Profit I fu battuto per cinque milioni. Ulrich si era disfatto del quadro, tanto desiderato per quattro anni, perché l’acquisto a quel punto è solo la ciliegina sulla torta di un processo di affezionamento a un’opera e a un artista.