Quello alla salute è un diritto universale, stabilito dalla Costituzione italiana all’articolo 32. Vale anche nelle campagne della Basilicata?

Nella provincia di Matera e in quella di Potenza abbiamo constatato che esistono «barriere» all’accesso al sistema sanitario nazionale. Queste dipendono sia da motivi burocratici e amministrativi, sia da questioni logistiche. La maggior parte degli insediamenti in cui siamo intervenuti si trovano in aree rurali, molto lontane dai centri abitati. Le persone hanno grosse difficoltà a raggiungere i punti salute più vicini.

Quali sono le «barriere» da eliminare per garantire il diritto alla salute?

Nello specifico raccomandiamo di attivare servizi sanitari di prossimità, vicino a dove vivono la maggior parte di queste persone, e la mediazione interculturale durante le prestazioni. È poi necessario rimuovere gli ostacoli amministrativi: le persone, anche quelle con documenti regolari, non possono iscriversi al servizio sanitario perché vivono in insediamenti informali e non hanno la possibilità di ottenere domicilio o residenza.

Le problematiche mediche rilevate hanno una relazione con le condizioni di lavoro e i contesti abitativi?

In un paziente su tre le patologie sono legate alle dure condizioni di lavoro. In uno su quattro alle situazioni abitative di estrema marginalità e precarietà igienico-sanitaria.

In un passaggio del rapporto affermate che gli insediamenti informali sono ripari creati in un «ambiente ostile». In che senso?

Ci riferiamo al fatto che esiste un «ambiente ostile» che spinge le persone nell’invisibilità. Molti dei lavoratori incontrati durante le nostre attività sono finiti in quella situazione a seguito di sgomberi nei centri urbani o nelle grandi metropoli, dopo l’allontanamento da altri insediamenti informali rurali, come Rosarno ad esempio, o a causa dell’uscita dai centri di accoglienza.

Cosa sono concretamente questi insediamenti informali?

Il più grande insediamento in cui siamo stati impegnati in questi mesi è un’area industriale abbandonata, la ex Felandina, che si trova a circa 3 km dal centro abitato, il comune di Bernalda, dove è situato l’accesso più vicino all’acqua potabile. Nella ex fabbrica non c’è un sistema di raccolta rifiuti, che non possono essere smaltiti. Non c’è elettricità e quindi le persone che hanno il diabete, ad esempio, non possono rispettare la terapia. Non hanno modo di conservare l’insulina, che necessita di determinate temperature. In questi luoghi esistono quindi grosse difficoltà abitative, ma anche a seguire le cure mediche.

Le leggi sulla sicurezza votate dal precedente governo hanno avuto qualche effetto sulla condizione dei braccianti?

Abbiamo incontrato diverse persone che avevano il permesso per motivi umanitari e sono state costrette improvvisamente a uscire dai centri di accoglienza in cui vivevano. L’unica alternativa che si sono trovate davanti è stata andare ad abitare negli insediamenti informali.

Perché avete intitolato il rapporto «Vite a giornata»?

Perché le vite di queste persone si svolgono alla giornata sia dal punto di vista abitativo che lavorativo. Giorno per giorno devono procurarsi acqua potabile per lavarsi e un impiego per avere dei soldi. Non hanno alcuna possibilità di programmare la loro esistenza. Neanche qualche giorno più in là.