Era il 1917 quando, durante i lavori per la ferrovia che interessava il tratto Roma-Cassino, il suolo franò, lasciando riaffiorare dalla terra umida, a nove metri di profondità, la Basilica ipogea di Porta Maggiore: un edificio a tre navate con le volte a botte, decorato con magnifici stucchi, mosaici e pitture (l’azzurro egizio perduto e il rosso dello zoccolo dei muri).

IL MONUMENTO, datato al I secolo d.C, ha attratto gli studiosi fin dal primo momento per la sua destinazione d’uso misteriosa. Forse, almeno nel suo rimaneggiamento in età neroniana, è stato una dimora segreta per quei riti neopitagorici che l’imperatore Claudio aveva bandito da Roma, ma sicuramente era stato anche un luogo sepolcrale per la potentissima gens Statilia, vicina ad Augusto, e per le loro maestranze, come dimostrano i 720 loculi del colombario. Ed è da qui che, pur restando aperte le ipotesi, si può dedurre il nome di uno degli artigiani impegnato nelle decorazioni: potrebbe essere quel Secundus Tarianus tector al servizio degli Statilii, la cui identità è «narrata» da una iscrizione sepolcrale conservata alle Terme di Diocleziano.
La Basilica ipogea ha avuto una storia molto accidentata. Dai lavori ferroviari ai bombardamenti di san Lorenzo nel 1943 fino alle infiltrazioni di acqua e alle fessurazioni dell’intonaco, «abitato» da funghi, batteri e alghe, questo manufatto architettonico enigmatico si era attestato in passato su uno stato di salute precario e su una impossibilità di restituzione alla città (oggi si può visitare con guide, su prenotazione, la seconda, terza e quarta domenica del mese, www.coopculture.it).
Da anni, la Soprintendenza speciale procede per tappe con interventi di restauro, sia strutturali che dettagliati, volti a consolidare i muri, a rimuovere le incrostazioni calcaree, a risanare l’intonaco e a salvare le raffigurazioni in stucco – nel catino absidale appare una bellissima Saffo che si getta nel mare accolta dalle Nereidi, un «rito di passaggio» che favorisce l’ingresso in un’altra vita.
Il nuovo capitolo dei restauri, realizzati fra aprile e novembre 2019 (dei risultati dell’altro parziale lavoro ne aveva scritto su il manifesto Valentina Porcheddu il 29 aprile 2015, https://cms.ilmanifesto.it/la-basilica-degli-iniziati/), finanziati dalla Fondazione svizzera di mecenati Evergète – è attiva anche in Kurdistan su un’antica casa ottomana e sul palazzo di Dario a Persepolis – ha recuperato la parete nord della navata sinistra, utilizzando sofisticate strumentazioni laser. La prossima tappa, spiegano la soprintendente Daniela Porro e la direttrice del monumento Anna De Santis, riguarderà nel 2020 la parete sud della medesima navata (il restauro ha già il suo budget in bilancio) e ci sarà la definitiva messa a punto dell’illuminazione, tenendo conto della fonte diretta, il lucernaio dell’edificio.

LA STORIA DEL LUOGO resta nebulosa (non è mai citato dalle fonti antiche), ma a rinforzare l’idea del suo uso misterico c’è la vicenda di Tito Statilio Tauro. Importante esponente della famiglia e console nel 44 d.c, fu accusato da Agrippina minore, moglie di Claudio, di officiare pratiche magiche (così racconta Tacito). In realtà, si mirava a colpire la dinastia per appropriarsi dei loro beni. Lui però si uccise e la sua morte potrebbe essere stato l’ultimo atto, quello che portò alla chiusura e alla damnatio memoriae della Basilica.