Live e virtuale. Tecnologica ed esperienziale. Legata agli spazi e alla bellezza del dialogo. Un contesto abitato da un mix vitale di generazioni tra artisti di svolta da decenni come Mikhail Baryshnikov e il Leone d’Oro Germaine Acogny e giovani talenti come il Leone d’Argento Oona Doherty su cui investire per il futuro.
È First Sense, prima edizione della Biennale Danza diretta a Venezia da Wayne McGregor, coreografo tra i maggiori del nostro tempo per lucidità e originalità della sperimentazione, ampiezza di sguardo sui linguaggi del corpo, velocità di relazione tra reale e artificiale. Ha preso il via settimana scorsa, termina questo weekend: First Sense, perché mai come in questi due anni il tatto è stato compromesso.
McGregor: «Le nostre mani – strumenti miracolosi, ognuna coordinante 29 articolazioni principali, almeno 123 legamenti, 34 muscoli, 48 nervi e 30 arterie -, sono diventate un campo di battaglia, igienizzate, raschiate e consapevolmente distaccate dal nostro essere. Siamo desiderosi di riconnetterci con il mondo e con la nostra fisicità».

Fisicità su cui riflettere con ogni mezzo: corpi dal vivo, in scena negli spazi chiusi dei teatri finalmente riconquistati, corpi reali in abbraccio con gli esterni, corpi filmati, proiettati in grande, con cui il pubblico entra in contatto in un mood relazionale assai diverso da quello imposto dai lockdown tra le pareti di casa.

«Somewhere at the beginning» di Germaine Acogny, foto di Andrea Avezzù

FISICITA’ in carne e ossa a cui il Leone d’Oro alla Carriera, Germaine Acogny, classe 1944, senegalese e francese, ha dato corpo e consistenza politica danzando e raccontando la sua storia in Somewhere at the Beginning, ideato e diretto da Mikaël Serre, e accogliendo con emozione il Premio della Biennale, riconoscimento meritato ai suoi cinquant’anni di lavoro e di battaglie con e per la danza contemporanea africana. Fisicità come affondo commovente nell’Archivio Storico con la mostra Il corpo è un documento dell’oggi, tributo a Ismael Ivo, direttore generoso e creativo della Biennale Danza per molti anni, scomparso quest’anno per Covid.Fisicità virtuale ma anche performativa nelle tre istallazioni visibili per tutto il festival, presentate in collaborazione con la 17. Mostra Internazionale di Architettura a partire dalla prima assoluta di NOT ONCE. incredibile film di 70 minuti, in loop all’Arsenale, firmato e ideato da un autore e artista di teatro quale Jan Fabre, autore anche del testo e co-regista con Phil Griffin, per il geniale, trasformista Mikhail Baryshnikov. In NOT ONCE. lo schermo ha una ampiezza orizzontale che dà l’impressione di una lieve curvatura. L’immagine di Baryshnikov è raddoppiata a specchio, quasi sempre in primo piano, in bianco, il volto imbrattato e continuamente ripulito, ricoperto da dense tracce di pittura, di schiuma, di piume, di cristalli.
Baryshnikov ci guarda dallo schermo, raccontandoci il percorso di una mostra di fotografia allestita in undici stanze che hanno come oggetto differenti parti del suo corpo. Il film alterna momenti di recitazione in sincrono a passaggi improvvisi con voce fuori campo, il montaggio è battente nel ritmo e nella qualità dei tagli. È un flashback su anni di scatti in cui non c’è nessun contatto fisico, nessun tocco, tra la donna che fotografa e l’uomo ripreso.

Future Self, COR. Wayne McGregor, foto di Andrea Avezzù

GIA’, NOT ONCE: questo «nemmeno una volta» preme sottopelle il corpo, la voce, le mani, la postura del collo, la direzione dello sguardo, il volto così paurosamente mutevole, seducente. Baryshnikov è un artista metamorfico, il suo corpo nello schermo flirta con la tecnologia, penetra e sfugge l’occhio della camera, rivela diabolicamente dettagli della concessione di sé allo scatto, del piacere, ma anche dell’inganno e del rifiuto.
Nel bianco dominante scorre ogni tanto un rivolo di sangue. Sta al centro dello schermo doppio, separa e unisce, sporca e sparisce. Le parti del corpo si mischiano nel racconto e nelle immagini a specchio che si sovrappongono una sull’altra. «Il mio fegato sono le mie braccia, il mio pancreas sono le mie gambe, il mio intestino sono i miei piedi». Tutto si confonde nell’immagine, nel volto doppio che diventa uno, nell’uomo che sembra gufo, scimmia, insetto. Come non ricordare del resto, tanti anni fa a New York, lo strepitoso Gregor Samsa di Baryshnikov ne La metamorfosi di Kafka?
Il fatto è che NOT ONCE., con le sue stanze introdotte da schermi in cui volano palloncini, piume, vetri scintillanti, grazie alla potenza attoriale di Baryshnikov sollecita questioni che riguardano tutti e che l’assenza del tatto amplifica. Dal testo: «Tutti quegli occhi estranei / che leggono la storia del mio corpo / che fa pensare loro di conoscermi / Non sanno niente / Si muovono o danzano / ecco ciò che fanno / Il cambiamento è essenziale / Io sono alla ricerca…» Magistrale.
TOM è “l’installazione di danza per macchina da presa” del coreografo e artista associato al Sadler’s Wells di Londra, Wilkie Branson, un film tridimensionale da vedere in teatro, alle Tese, un processo di making durato anni, tra un lavoro artigianale fatto a mano, la costruzione di modelli in 3D, l’uso del chroma-key capture e l’animazione digitale. Per raccontare il gap tra natura e civilizzazione, solitudine nella massa, un cammino tra paesaggi che si tramutano verso il ritrovamento di una naturalezza e di una gioia vissuti da se stessi bambini. Terza installazione, alla Sala delle Colonne di Cà Giustinian, con Future Self, due danzatori in carne e ossa della Company Wayne McGregor i cui corpi creano nella struttura a cubo, ideata dalla Random International, eccitanti linee luminose in movimento: una relazione tra “oggetto coreografico” e linguaggio fisico in costante, creativa evoluzione.
Plauso particolare infine nel primo weekend alla Biennale College, con i suoi folgoranti giovani danzatori, che hanno trascinato il pubblico in Solo Echo di Crystal Pite e Far di McGregor, e con i suoi sei danzatori/ coreografi, autori e interpreti di assoli inediti tra le opere della Biennale Architettura.