“Scusate se vi disturbo, sono un pittore italiano e vorrei conoscere Marcel Duchamp». Così, un giorno, si presentò Gianfranco Baruchello a una tavolata di Milano. Quel giorno era l’11 settembre 1962 e, al pittore italiano, cambiò la vita. Sarà proprio Duchamp a dire, di lui, la cosa più importante: «fa dei grandi quadri bianchi, con delle cose piccole piccole che bisogna guardare da vicino”. Se fare de visu l’esperienza dell’arte serve in genere ad apprezzarne lo spessore materiale, nel caso di Baruchello, piuttosto, vuol dire potersi avvicinare quanto serve alle sue superfici; e finalmente vederli, quei microscopici non-racconti, quegli «ambigrammi» – come li ha definiti Paolo Fabbri – «al limite dei codici linguistico e visivo» (nel maggio del ’58, l’altro incontro-chiave: alla personale di Cy Twombly alla Tartaruga di Plinio De Martiis). Quei paesaggi invisibili cosparsi di segni misteriosi, inintelligibili in qualsiasi riproduzione, non diventano per ciò meno misteriosi. Ma a quel punto si entra in una diversa dimensione: e si viene risucchiati nel cosmo di Baruchello.
Non spazio ma campo
Proprio Duchamp gli aveva mostrato – ha scritto Achille Bonito Oliva – come quello dell’arte non fosse più uno [/TITOLINO]spazio bensì un campo: un «luogo aperto a tutte le possibili relazioni, policentrico e slittante». Per questo dev’essere grande, e bianco: un punto zero luogo della massima potenza, atlante dei possibili in cui inscenare le proprie «microcosmogonie» (così definirà le sue, Baruchello, nel ’75; la Petite cosmogonie di Queneau, senz’altro, fra i suoi livres: Exercises de style, nel ’62, s’era intitolata la sua camicia incollata col vinavil, alla maniera di Piero Manzoni). Dirà nel ’63 Alain Jouffroy che così il quadro «diviene il cantiere intelligibile di un mondo che non è ancora nato».
La bellissima mostra Greenhouse (a Milano, fino al 18 marzo, alla Galleria Massimo De Carlo di Piazzetta Belgioioso), con dodici opere per lo più di grandi proporzioni dal ’68 al ’96, prende il nome da un lavoro del ’77 e illustra nelle sue polimorfe potenzialità, appunto, questo aspetto architettonico dell’ispirazione di Baruchello. Greenhouse significa «serra» (i lavori con questo titolo sono scatole di plexiglass dove, ha scritto Carla Subrizi, «venivano “curati” i sentimenti»), ma è anche mot-valise che include due concetti-chiave della sua ricerca: il verde e la casa. Nel 1973 infatti Baruchello decide di trasferirsi fuori città, in una grande casa in campagna a nord di Roma. Qui fonda l’Agricola Cornelia S.p.A., «con lo scopo sociale di coltivare la terra». E questo fa, Baruchello, per otto anni. Coltiva patate e barbabietole da zucchero, produce miele. I motivi di questa scelta sono diversi. S’era concluso un ciclo; all’impegno politico diretto ne seguiva uno più indiretto o, forse, più diretto ancora – in nome del valore d’uso della propria attività. Si chiedeva polemico: «occupare terreni incolti destinati alla speculazione edilizia, seminarci 5 chilogrammi di barbabietola da zucchero e raccoglierne dopo qualche mese 84340 chilogrammi, pari a tre autotreni con rimorchio, è più o meno artistico (perché “utile anziché inutile”) che praticare nello stesso periodo puri movimenti di terra tipo Land Art?». A posteriori invece, a Hans Ulrich Obrist, dirà che era stata «un’operazione molto provocatoria», assimilabile alla «società finta» di qualche anno prima, l’Artiflex.
Sia come sia, l’esperimento dell’Agricola Cornelia S.p.A. è al centro di un notevole saggio di Simone Ciglia e Carlotta Sylos Calò, Il campo espanso Arte e agricoltura in Italia dagli anni Sessanta ad oggi (pubblicato dal C.R.E.A., pp. 151 a col., s.i.p.), sulle esperienze che hanno trattato il campo rurale non quale più o meno amœnus repertorio iconografico, bensì come «materiale attivo» nei suoi riferimenti oggettuali (nell’Arte Povera o appunto nella Land Art, dai Campi arati di Pino Pascali sino alle inquietanti micro-storie di Moira Ricci: che all’ultima Quadriennale, non a caso, figuravano nella sezione «rurale» curata da Matteo Luchetti) e nei comportamenti concreti: mettendo a fuoco le figure dello stesso Baruchello e di Joseph Beuys (che nello stesso ’73 visita per la prima volta l’Abruzzo, dove dall’anno seguente intraprende le colture cui si dedicherà, poi, pure nella tenuta di Weert in Olanda). Alla dimensione ideologico-didascalica e idealistico-mistica di Beuys (come la definì sferzante Bonito Oliva in un dibattito con l’artista, a Pescara nel ’78) si contrappone la posizione ambigua e locale, in senso argomentativo, di Baruchello: il campo che ha scelto di occupare (e fisicamente coltivare) è uno dei «piccoli sistemi» che alla Land Art si contrappongono, allora, non tanto in nome dell’utile contro l’inutile bensì del locale, appunto, contro il monumentale («penso a che cosa deve essere costato a Christo appendere la sua tenda attraverso il Grand Canyon»).
Apertura alle stelle
Un’altra volta Baruchello ha detto che il suo ritorno alla terra era da intendersi «come risposta polemica all’esplorazione spaziale» (Ciglia). Eppure l’apertura alle stelle non era estranea al suo immaginario. Al ’63 risale Grande Effetto Palomar che, dirà, «testimonia la voglia di aprire (…)la testa. Lo spazio mentale si scoperchia (…) come la cupola di un osservatorio stellare, appunto quello del monte Palomar» (analogia sulla quale deve avere rimuginato Italo Calvino, che lo accompagnò negli Stati Uniti nel ’66, quando in un suo catalogo pubblicò, tradotta, la prima delle sue Cosmicomiche…). In effetti l’Agricola Cornelia S.p.A. era servita soprattutto a sperimentare «schemi eterocliti di collegamento continuo tra realtà e invenzione, tra esistente e inconscio».
Numerini piccini
Non a caso i cicli successivi di Baruchello, ben testimoniati a Milano, saranno dedicati all’immaginario della Casa (tra anni settanta e ottanta) e del Giardino (negli ottanta e novanta) come – sempre nelle sue parole – «prospezione onirica delle case-madri del sogno e del passato personale». Ed è qui che la sua ricerca incontra quella di Michele Mari. In occasione della mostra milanese Humboldt Books pubblica infatti, col consueto affatturante fascino tipografico, un libro d’artista dal titolo Sogni (pp. 152 a col., euro 30,00): nel quale trentacinque annotazioni diaristiche di Mari sono giustapposte a sessantaquattro tavole di Baruchello. Non più un «libro di viaggio» o, almeno, non sulle coordinate di atlanti visibili: perché Immaginarie mete di viaggi sono un po’ tutte le immagini scelte da Baruchello, «mappe-biscotto» di «località» come quella «detta Dormiveglia». Dal canto suo Mari seleziona, fra i suoi Oniroschediasmi, quelli con le «circonvoluzioni infinite della sua casa-case», «di stanza in stanza, di casa in casa senza portarci mai fuori dalla Casa». Questo spazio, proprio come L’Altra Casa di Baruchello (libro d’artista pubblicato nel ’79) è per Mari – autore di Asterusher (la fantastica «Autobiografia per feticci» cogli intérieurs di Francesco Pernigo, Corraini 2015) – quella piranesiana della mente: «l’altra parte», per dirla con Alfred Kubin, dove le pareti sono «superfici lucide» sulle quali «transitano segni», «numerini piccini» – proprio come le cose piccole piccole, le scritte piccine che galleggiano nei quadri-campi di Baruchello.
Nel 1965 quello che tanti anni dopo sarà il mentore di Mari, Giorgio Manganelli, aveva definito quello di Baruchello «un labirinto (…) di microscopiche, assurde, euforiche avventure». Alle spalle di chi guarda questi paesaggi-fondali, «si addensano micromostri, si librano sezioni di alghe, scaglie staccate a un qualsiasi animale». Ma forse quelle spoglie restate a terra alla fine dell’agone con Baruchello, nonché ignote, appartengono alla bestia che conosciamo, ahinoi, meglio d’ogni altra. Alla fine del testo di Mari, come nei suoi racconti più belli, lampeggia un dialoghetto metafisico. Invano il sognatore prova a resistere al sogno: «Verrà comunque il mattino». «Anch’esso farà parte di me». «E tutti i risvegli della mia vita?» «È questa, la tua vita». «E quando morirò?» «Allora incomincerai a sognarmi davvero».