Anche le emozioni più forti, i sentimenti più intensi sono spesso espressi con parole già pronte per la circostanza, con espressioni che dall’esterno si definirebbero banali, ovvie. Eppure nel «ti amo» detto alla persona amata non pensiamo che stiamo usando un cliché. A meno che non stiamo mentendo sapendo di farlo. Soprattutto, chi pronuncia o scrive quella frase e, probabilmente, anche chi la riceve, non si pone il problema di essere originale, creativo. Chi grida il gol della propria squadra non è toccato dal fatto che quella parola urlata è stata detta da altri, tantissime volte, in migliaia di scene analoghe. Non si preoccupa che potrebbe essere ripetuta a breve anche dagli avversari. Espressioni come queste sono di per sé anonime. Ma si rendono paradossalmente uniche proprio grazie alla loro riproducibilità, adattabilità: alla loro capacità di essere come varchi entro cui chi le pronuncia entra fino a spossessarsi di sé. Più moderatamente, queste espressioni, ridisegnano una scena base entro la quale le parole stesse rifermentano. E ciò anche quando queste parole stanno all’interno di opere letterarie. Anche qui non perdono la forza di essere il testo di una situazione unica pur provenendo da una situazione tipo. E anzi, proprio da qui, dal loro essere testo non autoriale, possono paradossalmente contribuire a fare l’opera.

La barriera della critica
È in questa dimensione paradossale di simulata assenza d’autore e di magia sempre rinnovata e senza storia dell’opera del linguaggio in situazione, in questa dimensione di libertà dalla riuscita estetica letteraria e di distanza critica che il Barthes saggista, a partire soprattutto da Il piacere del testo, si vuole collocare – anche in veste di professore personaggio. Per cui, «niente metalinguaggio», ripete Barthes all’inizio dei Frammenti di un discorso amoroso, portando così avanti il programma cominciato appunto con Il piacere del testo. E proprio il discorso amoroso si rivela essere particolarmente propizio al suo progetto di scardinamento della barriera fra poetica e critica, gesto e segno: al sogno di scrivere l’oralità e teatralizzare la scrittura, di praticare la parola letteraria in modo innovativo e al contempo però antico, secondo modi che ricordano la psicagogia dei sapienti – non la pedagogia dei filosofi. Ma c’è di più e ha a che fare proprio con l’argomento dell’amore che Barthes qui affronta.

Quando si è innamorati il senso della distanza muta, i ruoli si riaprono. Si è soggetti e oggetti dell’amore. E ciò prescinde dal fatto che si sia riamati o che l’altro perfino sappia che lo amiamo. Il discorso che si mette in piedi è indifferentemente un monologo o un dialogo con qualcuno. È per questo che per Barthes, come sùbito dichiara all’inizio dei Frammenti, il discorso è ciò che va qua e là, ciò che si costruisce necessariamente disperdendosi.

A Barthes interessa sempre di più la critica all’autore e lo sviluppo del personaggio. Se la prima può essere fatta dall’autore stesso, il secondo necessita sempre della collaborazione di un pubblico. Barthes nei suoi seminari ha questo pubblico ed ha dunque la concreta possibilità di svilupparsi anche come personaggio in un esercizio di costruzione e emersione, tra la pagina scritta e la scena dell’aula, la lezione e i media. Barthes diventa sempre più personaggio di sé e personaggio del sé. Nel discorso amoroso che Barthes sortisce attraverso parole altrui nessuno sta fuori dal gioco. Barthes stesso è il primo a coinvolgersi. E non solo perché è lui il montatore delle scene prelevate dalle opere letterarie per i Frammenti – soprattutto, ma non esclusivamente, I dolori del giovane Werther di Goethe. Non solamente perché è lui il regista di tutta la costruzione, ma anche perché egli partecipa come attore che riporta le proprie battute e le affianca alle altre in un concerto che conserva la dimensione frammentaria, occasionale e sempre volta al presente.

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Barthes e sua madre, immagine presente nella mostra “La Grande Madre” a Palazzo Reale, Milano

Frammenti di un discorso amoroso, proprio per questo modo di essere costruito in serie sincronica, è il reciproco di un’analisi psicoanalitica. Quasi la negazione del voler andare all’origine degli affetti ed effetti amorosi, perché questi si rioriginano continuamente come fossero sempre nuovi. Barthes seleziona i frammenti che giudica più importanti, nell’«infinito intrattenimento» dell’eloquio, dell’affabulazione. Fa come il montatore che ricombina le scene da quella che sembra la loro concatenazione casuale. Come il regista Barthes costruisce tutto, a partire dalla preparazione degli arnesi e dei materiali, mettendo così in piedi un vero e proprio set cinematografico.
Preparazione è termine chiave nel Barthes di questi anni di seminari (per esempio quello sulla Preparazione al romanzo) che diventano luoghi nei quali oltre ai testi si muovono vere e proprie troupe di studenti, uditori vari. Non è un caso allora se anche i Frammenti di un discorso amoroso vengono anch’essi da un seminario i cui materiali sono stati da poco raccolti in Il discorso amoroso. Seminario a l’École Pratique des Hautes Études 1974-1976 seguito da Frammenti di un discorso amoroso (inediti) (traduzione di Augusto Ponzio, Mimesis, pp. 656, euro 28).

Direzione di ricerca
Questi testi ci permettono di entrare dentro i lavori in corso di quelli che saranno i Frammenti, di studiare reperti, direzioni di ricerca. Ma soprattutto ci offrono la possibilità di partecipare idealmente alla dinamica di azioni sceniche prima della loro selezione e montaggio finali. Ci permettono in modo intermittente di assistere a come si filma un testo. Un libro, i Frammenti di un discorso amoroso che rimane, a cent’anni dalla nascita di Barthes, ancora un unicum letterario il quale però potrebbe illuminarci su alcune pratiche testuali e visive social mediatiche odierne: su come il discorso amoroso e altri discorsi vengano smembrati, riassemblati, dis-autorizzati o iper-autorizzati in una sequela di scene tipo, di pose nelle quali ci si costruisce incessantemente come personaggi.