Barricate a Quezon City. Di questo parlavano i resoconti degli scontri del primo luglio ad Agham Road, nella più grande delle città che costituiscono l’area metropolitana di Manila. Da una parte la polizia filippina, dall’altra gli abitanti dello slum che si opponevano allo sgombero per far spazio a un progetto di riqualificazione urbana.

I 29 ettari nell’area detta «North Triangle» ospitavano oltre 10mila famiglie, secondo quanto detto dal sindaco di Quezon, Herbert Bautista in carica da tre anni e che sul sito istituzionale cita tra le priorità della sua amministrazione quella di «spostare le persone povere dalle aree a rischio verso nuovi centri», un progetto da portare avanti con la collaborazione dei privati e delle agenzie governative.

Negli ultimi due anni almeno settemila famiglie sono state trasferite altrove nell’ambito di programmi governativi. L’area sarà trasformata in un distretto commerciale. Citati dall’agenzia France Presse, i gruppi di sostegno ai residenti spiegano che la nuova destinazione è troppo lontana dalla capitale dove gli abitanti degli slum lavorano nell’edilizia e in altri lavori a basso costo. I progetti di riqualificazione prevedono infatti il trasferimento verso l’esterno.

Per l’amministrazione a dare problemi non sono però gli occupanti. Il sindaco Bautista, riporta il Manila Times, cita informative secondo cui dietro la resistenza ci sarebbero gruppi che chiedono soldi ai residenti per proteggerli dagli sgomberi.

Le barricate e gli scontri servirebbero quindi a tutelare quello che definiscono un «racket», mentre 2mila famiglie son accusate di «tenere in ostaggio» almeno 12mila posti di lavoro.

A sviluppare il progetto di riqualificazione sarà la Ayala, tra i principali «developer» filippini, uno dei nomi citati anche nel volume Come e perché fare affari nelle Filippine a cura del giornalista de Il Sole24Ore Massimo Nola.
Passata poco più di una settimana dai fatti di Quezon City, le periferie di Manila sono tornate sulle news internazionali. Almeno 300 case sono andate a fuoco nell’area di Botanical Green. Un incendio causato probabilmente dall’esplosione di una bombola ha distrutto più o meno un terzo delle abitazioni nella baraccopoli.

Secondo i dati delle Nazioni Unite, aggiornati al 2009, gli abitanti degli slum filippini sono il 40 per cento della popolazione urbana. Nell’area metropolitana di Manila si parla di oltre un terzo della popolazione, una percentuale tale da essere definita la principale sfida per il governo dell’arcipelago nei prossimi decenni, come scrive Asia Trend Monitor.

Una sfida nella quale il governo si trova a dover fare fare i conti anche con il vocabolario. La stessa ATM, riferendosi a quanto scrive l’agenzia Onu Habitat, sottolinea come in lingua tagalog la parola slum non abbia un equivalente: si può dire iskwater, un derivato di squatter; si può parlare di estero ossia di canali puzzolenti, di eskinita, traducibile con vicoli, di looban, le inaccessibili aree degli slum. E ancora bedspace, ossia i luoghi che affittano un letto ai lavoratori migranti, dagat-dagatan quelle aree che più risentono delle alluvioni e delle inondazioni. Come emerge ancora dall’analisi non è neppure la povertà che portò allo sviluppo degli slum. Nel 2006 «soltanto» il 32 per cento dei residenti viveva sotto la soglia nazionale di povertà.

Conta invece nelle formazione di questi agglomerati la speculazione edilizia. In passato risiedere in queste aree diventò l’unica soluzione sostenibile per i migranti che arrivavano in città e oggi lo è ancora per quanti vogliono contenere il costo della vita.

Sebbene l’economia del Paese sia una delle più dinamiche della regione, con una crescita del 7,8 per cento nel primo trimestre dell’anno, la più alta nell’Asia orientale, dopo aver chiuso il 2012 con un più 6,8 per cento, il governo del presidente Benigno Aquino deve fare i conti con la difficoltà a creare posti di lavoro (ad aprile i disoccupati erano il 7,5 per cento e i sottooccupati il 19,3 per cento).

Dal 2007 l’arcipelago ha però conosciuto «un vero e proprio boom edilizio», si legge nel libro di Nola uscito l’anno scorso. «Manila, ma anche Cebu, Davao e Cagayan de Oro sono un cantiere in continua attività» e nello sviluppo immobiliare «sono impegnati tutti i grandi gruppo finanziari del Paese». Si tratta di un settore trainato «sostanzialmente» da tre fattori, spiega la guida per gli imprenditori italiani: le rimesse delle emigrati, compresi quelli che lavorano in attività avanzate e poi reinvestono nell’immobiliare residenziale in patria; la raggiunta stabilità macroeconomica; il bisogno di spazi per le attività di business process outsourcing in espansione.

In questo contesto città come Davao hanno visto la popolazione crescere al ritmo del 2,17 per cento in un periodo di tre anni. La città conta 1,4 milioni di abitanti ed è la più grande area urbanizzata del Paese sia in termini di abitanti sia di territorio dopo l’area metropolitana di Manila.

«L’aumento della popolazione è il risultato delle migrazioni dalle altre regioni in particolare per le opportunità che Davao offre come hub governativo, industriale e per gli affari» ha spiegato Leah Magracia, dell’ufficio nazionale di statistica al quotidiano Inquirer.