Settanta migranti, 53 tunisini e 17 libici, tutti uomini e una sola donna. Quando ieri una motovedetta della Guardia di Finanza e una della Guardia costiera li hanno raggiunti il barcone sul quale stavano viaggiando si trovava a 20 miglia dalla Sicilia, diretto presumibilmente verso le coste agrigentine dopo aver infranto, senza neanche saperlo, la retorica gialloverde del blocco navale, dei porti chiusi e del «in Italia si entra solo se autorizzati», frase ripetuta anche ieri dal ministro degli Interni Matteo Salvini. Alle due motovedette non è rimasto altro da fare che prenderli a bordo a portarli a Lampedusa, dove sono stati identificati e trasferiti nell’hotspot dell’isola. «Sono la dimostrazione che siamo un porto aperto», commenta il sindaco di Lampedusa, Salvatore Martello. Per il Viminale invece la decisione di trasferire i migranti sull’isola è stata presa «per velocizzare le identificazioni, individuare gli scafisti far scattare le procedure di espulsione», spiega una fonte del ministero. Una cosa è sicura: il recupero dei migranti non è stata un’operazione di ricerca e soccorso, che avrebbe comportato lo sbarco in un porto sicuro, nonostante dal barcone fosse partita una chiamata verso la Guardia costiera.

Dal Viminale sarebbe quindi partita l’indicazione di procedere con quella che di fatto si può considerare un’operazione di polizia, in modo da accelerare le procedure di espulsione. Non a caso nel pomeriggio Salvini assicura: «Siamo già al lavoro affinché i clandestini arrivati a Lampedusa vengano rispediti a casa loro nelle prossime ore».
Le cose, però, potrebbero non andare come spera il ministro leghista e le procedure per i rimpatri potrebbero richiedere tempi più lunghi. Intanto perché l’arrivo dei 17 libici dimostra come la guerra in corso nel Paese nordafricano comincia a spingere alla fuga anche la popolazione locale, che ha quindi diritto di presentare domanda di asilo. E poi perché la stessa richiesta potrebbe arrivare anche dagli altri migranti sbarcati ieri, seppure con maggiori difficoltà di essere accolta.

Prosegue intanto di fronte Malta l’attesa della Alan Kurdi. Ieri mattina un’altra donna incinta è stata sbarcata dopo che aveva avuto una crisi epilettica, senza però che al marito sia stato concesso di accompagnarla a terra. «Possiamo solo sperare che adesso possa stare meglio. Qui a bordo non potevamo più aiutarla», ha detto il comandante della nave, Werner Czerwinski. Con lo sbarco di ieri sono 62 i migranti che si trovano ancora sulla nave della ong tedesca Sea Eye che da otto giorni aspetta di conoscere dove approdare. Anche se ancora abbastanza tiepidi, ieri da Bruxelles sono arrivati i primi segnali di una possibile soluzione con alcuni Paesi che sarebbero disponibili a «fare uno sforzo di solidarietà», come ha detto una portavoce della Commissione europea. Parole che non rassicurano quanti si trovano a bordo della Alan Kurdi. «Abbiamo urgente bisogno di una soluzione rapida, politica ma soprattutto umanitaria», ha spiegato Czerwinski. «Le persone vengono da me e mi chiedono quanto tempo dovranno restare a bordo e perché ci vuole così tanto tempo. Hanno davvero paura della prossima fase di maltempo». E «preoccupate» per i prolungarsi della situazione di sono dette anche Oim, Unhcr e Unicef che ieri hanno ribadito l’assoluta priorità di salvare vite umane in Libia e assicurare un luogo di sbarco sicuro e tempestivo».